Enzo La Penna

Enzo La Penna

Giornalista. Lavora all’agenzia Ansa. Ha collaborato con i quotidiani Napolinotte, Paese Sera e La Stampa

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E la chiamano giustizia …
18 anni per una sentenza

di Enzo La Penna

Si trascina stancamente da 18 anni, tra intoppi e ostacoli di ogni tipo, tanto che si è trasformato in una sorta di diabolico gioco dell’oca, dove si ritorna sempre al punto di partenza. martelletto

E’ il processo a cosche della camorre attive alla periferia nord tra Chiaiano e Miano, in corso davanti al Tribunale di Napoli , in cui una ventina di imputati, gravati da accuse che vanno dall’associazione mafiosa al traffico di stupefacenti e estorsioni, sono in attesa di una sentenza (di primo grado!) che non si sa se e quando arriverà. E semmai un lontano giorno dovesse essere pronunciato il verdetto si tratterà di una decisione destinata a rimanere solo sulla carta, del tutto inefficace sotto il profilo sanzionatorio, in quanto l’approdo scontato appare ormai quello della prescrizione.

Va detto che nessuno degli imputati, ovviamente, è detenuto per le accuse contestate in questo dibattimento. Tutti infatti sono stati scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare. E ci mancherebbe altro: in nessun posto al mondo dove non si scende al di sotto di standard accettabili di civiltà giuridica si potrebbe pretendere di tenere in galera per 18 anni una persona senza che nei suoi confronti sia stato emesso un verdetto di colpevolezza. Un cammino faticoso, contrassegnato da mille impedimenti, tra questioni formali, difetti di notifiche, liste testimoni da ricompilare. E puntualmente, appena la situazione sembra essersi sbloccata, si azzera tutto e si ricomincia sa capo. Sì, perché si da il caso che i giudici nel corso degli anni passano (legittimamente) ad altro in carico e, nell’arco di un periodo così lungo, capita anche che qualcuno vada in pensione oppure passi a miglior vita.

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Un’aula di S. Maria Capua Vetere

E il cambiamento di un solo componente del collegio costringe a rinnovare il dibattimento. E occorre chiarire che questo processo non è sicuramente il solo ad essersi arenato nelle sabbie mobili del nostro sistema giustizia. Ogni magistrato, ogni avvocato, ogni cancelliere potrebbero citare innumerevoli casi di processi lenti, o fermi o comunque ingestibili. Una situazione che si traduce in denegata giustizia per tutti, a cominciare dalle vittime dei reati (che vedono ancora girare in strada indisturbati gli emissari del clan) a finire agli stessi imputati, i quali se da un lato possono comunque beneficiare delle lentezze (se colpevoli) dall’altro vivono l’incubo di 18 anni sotto il peso di accuse gravissime (se innocenti).

Ma qual è il nodo della questione, cosa è che determina questa gigantesca impasse, che fa dell’Italia (e soprattutto dei territori maggiormente segnati dalla criminalità) la cenerentola delle nazioni civilizzate per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia? L’ostacolo principale, accanto alle procedure eccessivamente farraginose, è rappresentato dalla gestione dei maxiprocessi, o di quelli con almeno 15-20 imputati che raramente riescono a giungere in porto senza prima naufragare nel grande mare della prescrizione.

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Enzo Tortora

Occorre quindi fare un passo indietro nel tempo, precisamente tornare al 1989 quando, anche sull’onda delle polemiche suscitate dal caso Tortora, si decise di adottare nel nostro paese un nuovo codice di procedura penale che sostituisse il sistema ”inquisitorio” in vigore fino ad allora. Si scelsero quindi gli elementi basilari del più garantista sistema accusatorio, sul modello anglosassone, in cui le prove dalla prima all’ultima vanno verificate nel processo pubblico, soprattutto con l’esame incrociato dei testimoni. Non funzionava più come una volta quando le prove raccolte in istruttoria erano difficilmente smontabili: ”la prova si forma al dibattimento”, è infatti il principio fondante del nuovo processo. Che, rendendo assai più articolato e approfondito il momento del processo pubblico, ne allunga inevitabilmente i tempi. Un sistema che può pertanto funzionare, come nei paesi anglosassoni, solo con l’adozione dei cosiddetti riti alternativi (abbreviati e patteggiamenti) che evitano di inflazionare il dibattimento. E che, in ogni caso, non può mai funzionare al meglio quando gli imputati sono troppi e altrettanto numerosi sono i capi di imputazione e i fatti da valutare.

TribunalePer rilanciare la macchina giustizia sarebbe indispensabile in primo luogo rivitalizzare i riti alternativi. Il nostro bizzarro paese è l’unico probabilmente dove è possibile ricorrere contro il patteggiamento. Il che rappresenta una contraddizione enorme dello spirito di questo istituto: se concordo con il pubblico ministero una condanna più lieve di quella che mi spetterebbe, come ”premio” di aver fatto risparmiare tempo evitando un lungo e talvolta costoso processo,  non dovrei poi avere la possibilità di ricorrere, perché questo contrasta evidentemente con le finalità deflazionistiche per le quali è stato istituita la pena concordata. Ma ancor più importante sarebbe evitare, per quanto possibile, i processoni ”monstre”, quelli con tanti imputati, come quello di Napoli che si è citato come esempio. Bisognerebbe che i procuratori si convincessero che sono quasi sempre ingestibili e che sarebbe il caso di cambiare strategia: raccogliere prove sicure e inattaccabili per uno o un gruppo più ridotto di imputati, esibirle in tempi brevi al dibattimento, ottenere una condanna e una pena certa. Si obietterà che i processi alla criminalità organizzata debbano essere necessariamente complessi, ma meglio tre camorristi messi in condizioni di non nuocere che una ventina liberi di scorrazzare che rischiano al massimo una lauta parcella all’avvocato.

 

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Un pensiero su “E la chiamano giustizia …
18 anni per una sentenza

  1. ROBERTA PALUMBO

    Ciao Direttore
    trovo molto interessante e ricco di contenuti il tuo portale. Ho anche riconosciuto nomi familiari tra gli autori delle recensioni (Antonella Pane ed Antonello Grassi) e sono entusiasta che professionisti della scrittura si siano raggruppati in un portale che permetta alle persone di leggere ma soprattutto di pensare.
    Un cordiale ed affettuoso saluto
    Roberta

    Replica

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