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Febbre da levriero

di Gaetano Borrelli

Di soldi ne giravano tanti, tantissimi. E quelli veri, non gli incassi “ridicoli” dei totalizzatori dei giorni nostri. Era la piccola Las Vegas del gioco, quattro  picchetti, totalizzatore con vincente e accoppiata e bookmaker a volontà. Ce n’era per tutti i gusti e per tutte le tasche. Al Cinodromo si scommetteva con “fiducia”, le corse dei levrieri hanno ovunque un fascino suggestivo e particolare perché in teoria non esiste il fattore umano, non essendoci un allenatore che impartisce gli ordini ed un fantino che deve osservarli, dovrebbero avere meno pericoli di “combine”, rispetto a quelle dei cavalli. Dovrebbero …

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La chiamavano tutti Regina, perché raccontavano “è figlia di un re”. Di una tribù africana. Nessuno sapeva quanto fosse falsa questa storia. Sotto i trent’anni, un po’ in carne, ma veramente bella. Alta, sorriso smagliante, nera ma non un tizzone, mezzo angelo e mezzo demone. Un culo da favola. Regina compariva e spariva. Per mesi faceva perdere le tracce. E’ in Africa, dicevano. Quando era in città frequentava i circoli, quelli dove di giorno si fa sport e di sera si gioca a carte. Ma anche quelli meno nobili, dove di notte si giocava e basta e dove una volta al mese arrivava la polizia. Anche a Regina piaceva giocare, ma non lo faceva in prima persona. Giocava in società con il partner che l’accompagnava al circolo. Un quota, il dieci per cento. Se si vinceva Regina incassava, se si perdeva il partner perdeva anche per lei. Regina portava fortuna e metteva allegria.

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Entrare al circolo con Regina sottobraccio era una soddisfazione che avevano in pochi. Regina selezionava con cura i suoi accompagnatori: uomini maturi, senza vincoli, eleganti, gentili. Non era una rovinafamiglia, perché sceglieva uomini senza famiglia. Il privilegio di accompagnarsi a Regina l’aveva spesso Alberto, un uomo di mezza età, grossoccio ma non ripugnante, erede di una stimata famiglia napoletana, funzionario di un ente pubblico.

Alberto era proprietario al cinquanta per cento del cinodromo Domitiano, il tempio delle corse dei cani. Il socio di Alberto era Federico, un’ex allibratore di origine salernitane, scapolo, viso rugoso coperto da grandi occhiali neri e spessi, arricchitosi nei trent’anni di attività ufficiale all’ippodromo di Agnano. Alberto non navigava nell’oro ma aveva le mani bucate: gli piacevano tutte le emozioni della bella vita.

Non si faceva mancare niente: belle donne, gioco d’azzardo, cocaina. Federico con il picchetto ad Agnano aveva accumulato un patrimonio esagerato, ma anche in vecchiaia era rimasto più tirchio che parsimonioso. Chissà quale strano incrocio aveva portato due uomini così diversi ad essere soci. Così diversi che le liti sulla gestione del cinodromo erano all’ordine del giorno. La spuntava sempre Federico, in virtù della liquidità che poteva mettere sul piatto.

cinodromo22Le corse dei cani erano sbarcate a Napoli nell’immediato dopoguerra. Il ragioniere Giannone e il suo amico Metastasio, entrambi romani, uno ex funzionario e l’altro allibratore del cinodromo di Roma, avevano avuto, il primo come liquidazione, e il secondo come pareggio dei conti, una dozzina di levrieri irlandesi, i cani da corsa. Si trasferirono a Napoli convinti che in una città dove il gioco prosperava tra circoli, ippodromo, pelota basca, zecchinetta perfino il colonnato del Plebiscito, le corse dei cani potessero avere un futuro. Le prime gare furono organizzate all’Arenaccia, sul tracciato del velodromo. Del resto anche a Milano i cani avevano corso prima della guerra al velodromo, al Vigorelli. Il successo fu enorme. Qualche anno più tardi, a Fuorigrotta sui terreni della Mostra d’Oltremare, sorse Edelandia, il parco gioco della città.

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A margine di Edenlandia trovò spazio il cinodromo Domitiano. Una vera grande tribuna coperta che s’affacciava sulla pista di 300 metri costruita apposta per le corse dei cani. Un gioiellino. Sotto la tribuna un bar, alle spalle i servizi igienici. Accanto agli ingressi, su quello che oggi si chiama viale Kennedy, i box per alloggiare i cani impegnati nelle corse del giorno e uno spazio aperto per la vestizione pubblica. I cani uscivano dal box, un quarto d’ora prima del via. Ogni cane aveva un assistente che era anche l’uomo che se ne prendeva cura quotidianamente. Il veterinario di servizio ne controllava la condizione fisica, poi venivano sistemate ai nodelli fascettine protettive, quindi la gualdrappa con il numero di gara.

Un breve riscaldamento, un massaggio ai muscoli con alcool denaturato prima di avviarsi al guinzaglio dell’assistente alle gabbie di partenza, scatoloni di legno con una uno sportello di vetro anteriore. Le gabbie erano sistemate in posizione diversa, più avanti o più indietro, secondo la forza del levriere. Una gara ad handicap con i più forti penalizzati di due, quattro, otto, dodici metri rispetto ai meno veloci. In teoria tutti i concorrenti dovevano avere una chance. I levrieri venivano spinti nella gabbie chiuse.

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Le prime rudimentali gabbie di partenza

Al passaggio della finta lepre, un pupazzo sistemato su un griglia di ferro, azionata manualmente in modo tale da essere sempre irraggiungibile, si aprivano contemporaneamente tutti gli sportelli. I cani si lanciavano in una corse folle nel tentativo inutile di agguantare la finta lepre che dopo il traguardo veniva occultata con uno straccio. I cani confusi per la sua sparizione improvvisa venivano distratti dall’odore di sangue di una vera pelle di un coniglio macellato di fresco.

Ma i cani davvero credevano sempre d’inseguire una lepre? Alcuni, i campioni, facevano la corsa sugli avversari, superandoli con sorpassi millimetrici anche nella curva più stretta. Le distanze delle corse erano due, la breve di 230 metri, la lunga di 380 metri. Al massimo correvano in sei, minimo in tre, ma alla maggior parte delle corse partecipavano in quattro o in cinque. Sui 230 metri il record si aggirava sui 14 secondi e 20 centesimi, un lampo nel quale passavano di mano milioni di lire: dai giocatori agli allibratori ufficiali o clandestini e qualche volta viceversa. Erano gli anni Settanta, gli anni dei soldi facili.

Nel cinodromo Domitiano si correva tre volte la settimana. Sempre il lunedì, nel giorno di chiusura delle agenzie ippiche, quando anche gli scommettitori incalliti delle corse dei cavalli affollavano tribuna e parterre del cinodromo. Le altre due riunioni erano modulate sul calendario dell’ippodromo. Corse dei cani, dopo le corse di trotto o di galoppo di Agnano.

Meno di un chilometro di distanza separa ippodromo da cinodromo. Chi aveva perso ai cavalli provava a rifarsi ai cani, chi aveva vinto cercava la conferma che quello era proprio il giorno buono. Il programma del lunedì era di lusso.

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Sulla distanza dei 380 metri correvano i campioni. Angel Hill vinse tredici corse di fila partendo da solo a 380 metri. Cambiavano gli avversari, si allungavano i metri dell’handicap ma il levriere bianco con macchie beige vinceva sempre. Sembrava un missile teleguidato, tagliava le curve con una potenza spaventosa sfiorando lo steccato, superando a uno a uno gli avversari. Le vittorie di Angel Hill trovarono spazio sui giornali e nelle tv locali. Prima di Angel Hill, il supercampione era stato Dandies Delight, un levriere tutto bianco che aveva una partenza spaventosa. Sulla prima curva annullava qualsiasi handicap, in un amen si ritrovata in testa. Se non ci riusciva la sua corsa era compromessa. Fenomeno nella prima retta, diventata un levriere normale nella seconda parte di gara.

Angel Hill invece partiva discretamente, poi man mano che passavano i metri andava sempre più forte. Un crescendo che faceva impazzire quanti a dispetto delle statistiche puntavano sempre su di lui. Nel cinodromo Domitiano, Metastasio faceva l’allibratore, Giannone era l’handicapper: complicava le corse, decideva la posizione e la distanza di un levriero. Dal lato tecnico era il padrone del cinodromo. Gli scommettitori erano convinti che sapesse sempre chi vinceva. Lui si chiudeva a riccio, proseguiva per la sua strada a testa bassa, dribblando qualsiasi domanda. Anche ai collaboratori non rivelava fino in fondo le sue strategie. Il salumiere che forniva la famiglia Giannone provò invano a corrompere la moglie del ragioniere. Non ebbe nemmeno un cane vincente e perse una buona cliente.

cd23Giannone sovraintendeva anche al giornale ufficiale, un grande foglio, “Levrieri & Corse”, dove si pubblicava il programma, si formulavamo pronostici, si riportavano i risultati delle riunioni precedenti. Anche i pronostici erano frutto del lavoro di Giannone. A saperli interpretare si poteva ricavare qualche indicazione veritiera. Se un levriero correva più volte al di sotto delle attese, Giannone gli faceva fare una prova pubblica di incoraggiamento. Una corsa senza gioco dove correva da solo. Qualche giorno dopo la prova, lo stesso cane, se Giannone aveva visto giusto, vinceva una corsa vera.

Il padrone economico del cinodromo era il vecchio Federico. Alberto contava come il due di picche, anche se talvolta faceva la voce grossa. Alberto dal suo ufficio defilato seguiva le corse, talvolta in compagnia di Regina. Giocava Alberto, quasi sempre su indicazione di altri dipendenti del cinodromo, soprattutto gli assistenti che lo ragguagliavano sulla condizione fisica dei cani. Giannone anche a lui rifiutava qualsiasi indicazione. Alberto, oltre a Regina, aveva un socio vero, Pasquale, commerciante di biancheria porta a porta, incaricato di piazzare le scommesse presso gli allibratori clandestini. Alberto puntava e perdeva, spesso. Tra le ire di Pasquale, illuso che fosse un affare giocare in società con uno dei padroni del cinodromo. Non era un affare. Regina rincuorava Alberto, ma con sorriso gli lanciava maliziose frecciatine: certo se non vinci tu, qui non vince nessuno. Avvocati di grido, giornalisti, medici, commercianti, ufficiali dell’esercito, impiegati, ingegneri, ristoratori e camerieri, nullafacenti, studenti, imbroglioni, delinquenti e qualche rapinatore di banche: il campionario dei patiti delle corse dei cani era vasto e variegato. A rotazione vincevano tutti, chi più chi meno, e perdevano tutti. Alla lunga avrebbero vinto sempre il banco (come in tutti i giochi) e il cinodromo che aveva una trentina di dipendenti, una metà in organico, gli altri impiegati solo nei giorni di corse.

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Il cinodromo Domitiano

Alberto avrebbe fatto pazzie per dimostrare a Pasquale che lui contava davvero, che poteva vincere a casa sua. Il giorno del riscatto arrivò inaspettatamente. Giannone, per la prima volta, prese un po’ di giorni consecutivi di ferie per andare a Milano, al matrimonio della figlia. Il sostituto di Giannone, che aveva la qualifica di handicapper e quindi l’autorità per firmare un programma di corse, era Luigi, un nipote di Federico. Luigi lavorava svogliatamente al cinodromo, solo per compiacere al vecchio zio. Per tenerselo buono, sperando che non lo escludesse dal testamento lasciando tutto alla giovane amante. Di corse di cani ne capiva poco, aveva altri mille interessi e poi ero iscritto all’università, studente fuori corso. Luigi avrebbe fatto il programma con l’avallo dello zio e l’assistenza di altri impiegati. Luigi compilò con qualche difficoltà i primi programmi, poi comunicò che si sarebbe assentato per il week-end, per improrogabili impegni di studio. Prima però firmò dei fogli in bianco per permettere ad altri la stesura e l’ufficializzazione del programma del lunedì. Alberto fiutò la grande occasione, rassicurò il giovane di stare tranquillo: per una volta il programma lo avrebbe fatto lui. Luigi avvertì lo zio Federico dei propositi del socio e partì in vacanza con la fidanzata.

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Federico fece la voce grossa: l’Alberto handicapper per un giorno non gli piaceva proprio. “Non ne sei capace”, ripeteva. Ma Alberto per una volta urlò più di lui: “Sono l’unico che capisce qualcosa”. Vennero alle mani, gli impiegati li divisero, Federico ebbe un lieve malore e si fece accompagnare a casa. Alberto era diventato momentaneamente il padrone del cinodromo, ma sarebbe stato capace di fare un programma? Non ne sarebbe stato capace. Lo sapeva anche lui. Ma aveva una carta segreta. Uno studente, Carletto, che era sempre presente al cinodromo durante le corse, l’unico con il quale Giannone scambiava qualche battuta, ma solo per commentare una corsa già disputata.

Alberto di tanto in tanto interpellava Carletto per sapere se Giannone gli aveva rivelato qualcosa. Lucio si procurò il numero di casa e lo chiamò: “Mi devi fare un grande piacere, domani mattina vieni a casa mia, avrò l’elenco dei cani idonei a correre lunedì, mi devi aiutare a fare il programma”. L’elenco lo faceva il capo degli operai che custodivano e assistevano i cani, valutando le condizioni fisiche, le passeggiate mattutine e l’intervallo trascorso dall’ultima corsa. Carletto sapeva dell’assenza di Giannone, restò egualmente sorpreso ma non si tirò indietro.

Alle 9 del giorno dopo suonò il capannello dell’abitazione di Alberto, situata in una zona commerciale non residenziale, quartiere né elegante né degradato. Carletto attese invano un paio di minuti, poi pigiò di nuovo il campanello. E finalmente la porta si aprì. Alberto in vestaglia, gli occhi gonfi di chi aveva dormito poco e male. Si scusò e fece accomodare Carletto nel salone di un appartamento ben arredato con qualche mobile d’epoca. Un appartamento che sicuramente anni addietro aveva ospitato una famiglia vera, la famiglia di Alberto che ora viveva da single. Ma Alberto e Carletto non erano soli. Sulla soglia del salone apparve una venere nera, castigata in sottoveste rosso fuoco.

“Ciao sono Regina, ti preparo un caffè?”. Alberto non lasciò a Carletto il tempo di orientarsi, andò al citofono e chiamò in portineria: “Per favore, hanno recapitato una busta gialla, me la portate…”. Nella busta c’era l’elenco dei cani disponibili, bisognava trasformare l’elenco in un programma credibile. “Vedi Carletto, per una volta vorrei vincere anch’io. Mi bastano due-tre corse sicure”. Il compito di Carletto diventò improvvisamente impegnativo. Fare le corse è un discorso, possono riuscire bene o male, ci sarà comunque in ogni caso un cane che arriva primo e uno secondo.

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Fare le corse per vincere è ben più complicato. Carletto lesse più volte l’elenco, quasi lo memorizzò, e dopo un lungo silenzio spiegò come intendeva procedere.

“Ci sono due cani, manco a farlo apposta sono fratelli, Massimo e Massimino, che sono in gran forma ma non riescono a vincere da tempo perché vanno a sbattere sempre su avversari che trovano sulla loro corsia. Potremmo confezionare due corse per loro”. Alberto non sembrava convinto, ma aveva grande fiducia nel giovane amico: fai tu, hai carta bianca. “Ecco, facciamo due corse fotocopie: la quinta e l’ottava sui 230 metri con cinque cani al via. Massimo e Massimino per il loro valore partono sempre nella parte bassa dell’handicap, preferiscono correre al centro della pista, in curva vanno molto larghi, ma nel finale sono fortissimi. L’importante è dargli la corsia centrale libera e fare in modo che in curva gli inseguitori non li abbiamo raggiunti. Ecco l’handicap della quinta corsa. Terrone (numero 5) va in corda e parte forte ma è labile nel finale, parità a 222 metri; Massimo (n. 4) a 224 metri, a 228 insieme Caligola (n. 3) e Verace (n. 2) che sono lenti a mettersi in azione e a 230 Meraviglia (n. 1) che pure parte forte. Svolgimento ipotizzato: Terrone va via lungo la corda, Massimo lo segue, Meraviglia infila subito Caligola e Verace ma non raggiunge Massimo che può scurvare da solo e lanciarsi all’inseguimento di Terrone che cala vistosamente nel finale. E stesso schema all’ottava: Massimino al posto di Massimo, e con Ontario, Vermont, Libellula e Ciclamino che hanno le stesse caratteristiche di Terrone, Caligola, Verace e Meraviglia”. Ora bisogna compilare le altre sei corse. Carletto divide il resto dell’elenco tra i levrieri della breve e della lunga e completa velocemente il programma. Rimangono fuori, come previsto, quattro cani: saranno idonei per la prossima riunione.

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Alberto ha il programma, lo ricopia con la sua calligrafia, prende il telefono e chiama il tipografo: vieni, siamo pronti per la stampa. Quel lunedì il cinodromo era più affollato del solito. Alberto convocò Pasquale nel suo ufficio e gli disse: “Oggi puntiamo forte, al raddoppio, ma solo due corse. Devi aspettare, vieni prima della quinta e ti darò istruzioni”.

Il pomeriggio sembrava scorrere lentamente. Prima corsa, un trial, tutti alla pari sui 380 metri. Parigino, favorito di poco su Muscat che lo batte in arrivo. Bella corsa, combattuta anche la seconda e la quarta, meno la terza. Ecco la quinta corsa: Alberto temeva che la lettura di Carletto fosse fin troppo evidente, che la quota sarebbe stata poco invitante. Ma in fondo l’importante era vincere. Non fu così: gli allibratori aprirono favoriti a 1 e ¼ Terrone e Massimo. Anzi dopo un po’ Massimo lievitò a 1 e ½. Pasquale passò all’attacco fece il giro dei clandestini: spuntò un 180/100 prima che la quota ufficiale precipitasse alla pari. Carletto aveva puntato legalmente a 1 ½ duecentomila lire dividendole in due puntate.

Lire_100000_(Caravaggio)Era un po’ preoccupato, non tanto per le sue duecentomila lire (di solito sui cani “sicuri” ne giocava ventimila) quanto per le cifre sicuramente rilevanti che avevano investito Alberto e Pasquale. Le corse sono corse e in fondo poteva essersi anche sbagliato. Carletto salì sull’ultima gradinata della tribuna, in un posto un po’ isolato. Il lungo suono del campanello, annunciò la chiusura delle scommesse e l’entrata dei cani nelle gabbie. Si parte: Terrone va via veloce, Massimo tiene a distanza Meraviglia che ha messo subito fuori corsa Caligola e Verace. Massimo gira la curva da solo, perde qualche metro su Terrone, ma appena comincia la retta d’arrivo recupera in un baleno, passa di forza in vista del traguardo: 4-5, accoppiata favorita.

Carletto si sente sollevato, Pasquale e Alberto non esultano. Sono troppo abituati a perdere e poi non hanno fatto ancora niente. Hanno già deciso di scaricare su Massimino all’ottava corsa puntata e vincita: o la va o la spacca. Carletto invece mette al sicuro le duecentomila lire. Sull’ottava, l’ultima corsa , punterà solo la vincita. Non si sa mai. Ecco l’ottava, idem per le quote : Vermont a 1 e ¼ e Massimino a 1 e ½. Pasquale fa il giro dei clandestini, riesce a piazzare tutta la somma a 180/100. L’urlo e una bestemmia liberatoria di Pasquale accompagnano gli ultimi metri di Massimino che ha già superato Ontario. Arrivo: 4-5, accoppiata favorita. Alberto non fa nemmeno una smorfia, Regina resta perplessa: ma abbiamo vinto o no, chiede? “Sì, sì”, sussurra con un filo di voce Alberto”. Una vittoria gli toglie un po’ di sete ma non gli basta, sta già pensando che il ragionier Giannone e Luigi, il nipote del socio, sono due spese inutili e in fondo lo penalizzano. Il programma potrebbe farlo sempre lui con un paio di corse sicure per sera. Pasquale salì in ufficio con due mazzette di soldi arrotolati. Alberto le infilò velocemente nelle tasche dei pantaloni.

 

Poi si affacciò alla finestra e chiamò Carletto. “Sali un momento”. Carletto stava scappando a prendere la Cumana con il gruzzolo ben stretto, ma non seppe dire di no. “Anche Regina ti vuole ringraziare. Toccale il culo, vedi come è tosto”. Carletto ebbe la lucidità di rispondere al volo: “Non mi permetterei mai con una signora”. Regina, non era abituata a sentirsi chiamare signora, avvicinò Carletto e gli mollò un bacio. Carletto, restò intontito dai profumi forti e sensuali, un po’ arabeggianti, un po’ selvaggi, uno dei segreti di Regina, una donna fatale che mandava subito gli uomini in confusione. Una volta a casa, Carletto andò di corsa nel bagno a farsi una doccia. Se li avesse sentito la madre qui profumi avvolgenti, avrebbe pensato: mio figlio è andato a puttane.

La mattina seguente Alberto chiamò a casa di Carletto: “Tieniti pronto, facciamo un altro programma. Ti telefono appena ho l’elenco”. La telefonata non arrivò. Luigi era rientrato dal week-end e lo zio Federico gli aveva ordinato che fino al ritorno di Giannone non si doveva muovere più dal cinodromo. Federico zittì anche Alberto: è illegale che tu fai il programma e lo firma Luigi. Questa cosa non si ripeterà più. Alberto durante la successiva riunione rintracciò Carletto e gli disse: vedrai, un giorno sarò l’unico proprietario del cinodromo e faremo le corse noi due. Mentiva, non avrebbe mai avuto i soldi per fare un’operazione del genere.

Ma Alberto non si era rassegnato. E una mattina a sorpresa andò a casa di Luigi. Gli voleva parlare. La prese alla larga. “Luigi, tu sei un bravo ragazzo. Lo sai, al cinodromo ci sono un sacco di allibratori clandestini. Sottraggono soldi che danno da vivere ai dipendenti, a me, a te, a tuo zio. I clandestini vincono sempre. Per cercare di allontanarli c’è un solo sistema: fare vincere gli scommettitori e fare perdere i clandestini. Tuo zio è all’antica, queste cose non le capisce”. Un lungo giro di parole per convincere Luigi a compilare almeno un paio di corse “facili”, tenendo all’oscuro lo zio.

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Luigi ascoltò in silenzio, poi sbottò: “Come si fa ad essere sicuri del risultato”? “Il sistema è semplice: favorire un cane che è in forma”, spiegò Alberto. Il pressing durò giorni e giorni, finché Luigi preso per stanchezza, si arrese. “Dimmi tu, il cane più in forma e provo a fargli una corsa nel programma di lunedì”. Alberto rintracciò il capo degli operai e si fece consegnare in anteprima l’elenco dei cani idonei a correre il lunedì. Li dettò al telefono a Carletto. “Il cane più in forma è Flaming Star, un campione che parte sempre a 230 metri. Per farlo vincere bisogna lasciargli la corsia interna libera”.

Alberto raccolse e trasferì a Luigi: fai una corsa per Flaming Star, lasciagli la corsia interna libera e fai in modo che si ritrovi in testa prima della curva. Luigi mantenne la promessa. Flaming Star a 230 metri, a 226 metri Negretto, Petrella e Virginia: prima corsa del convegno di lunedì. “Negretto, Petrella e Virginia partono piano e vanno al largo, Flaming passerà in testa prima della curva”, sentenziò Alberto.

Carletto fece una smorfia: “Questa è una corsa di merda, salta anche agli occhi dello scommettitore più fesso che Flaming corre da solo. Non ci sarà quota vedrai, lo offriranno a 30/100, non varrà la pena giocarlo”. Effettivamente la quota iniziale fui di 30/100, ma salì rapidamente: ½, 3/5, addirrittiura 4/5. Un regalo. Carletto puntò duecentomila a 4/5, Pasquale piazzò dai clandestini una bella cifra alla pari. Poi trovò chi gli arrotondò ancora più la quota: 120/100. Un’esagerazione. Pasquale puntò altri soldi per lui e per Alberto. I clandestini in altre occasioni, con un favorito evidente a quota ghiotta, si erano defilati o aveva limitato il rischio. Stavolta no. Accettavano qualsiasi puntata. Vi fu un movimento pazzesco per essere la prima corsa. All’apertura delle gabbie Negretto, Petrella e Virginia iniziarono a contrastarsi a vicenda, ma Flaming Star invece di recuperare perdeva terreno. Prima della curva Flaming aveva dieci metri di svantaggio, rispetto all’handicap iniziale di quattro. In curva rallentò ancora, finì staccatissimo ad una trentina di lunghezze. Il pubblico rumoreggiava già prima del traguardo, Alberto abbandonò Regina, salì ansimando le scale della tribuna, raggiunse la parte alta dove in una specie di bunker con vista sul traguardo erano asserragliati l’addetto al fotofinish, il giudice di arrivo, lo speaker che annunciava arrivo ufficiale e quote, il giudice di gara e l’handicaper, il povero Luigi.

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La porta di ferro era chiusa dall’interno, Alberto bussò e urlò per farsi aprire. Il fotografo girò la chiave e Alberto entrò raggiungendo in un amen la postazione del colonnello Carotenuto, il giudice unico, un ufficiale dell’esercito in pensione. E subito azionò la sirena. Era il segnale che l’ordine di arrivo era sospeso in attesa di accertamenti. La sirena l’avrebbe potuta azionare solo il colonnello Carotenuto se avesse ravvisato una difettosa apertura delle gabbie (ovvero non tutte aperte contemporaneamente) o il blocco della finta lepre. Erano le uniche possibilità previste per annullare la gara e rimborsare le scommesse. Non riscontrabili nella corsa di Fleming Star. “Questa corsa va annullata”, tuonò Alberto.

“Non ci sono gli estremi”, ribatté il colonnello mentre una folla di scommettitori si era radunata sotto i finestrini dai quali i giudici seguivano le gare. Erano gli scommettitori che avevano investito su Flaming Star. Gli allibratori clandestini erano invece andati al bar, sicuri che l’arrivo sarebbe stato convalidato.

“E adesso esca da qui”, intimò il colonnello. Alberto sfilò la chiave dalla porta, la mise in tasca, e disse: “Me ne vado”. Con passo veloce chiuse la porta e girò la chiave, uscendo agli scommettitori disse: per me la corsa va annullata, ma lo sapete può farlo solo il giudice di gara. Di fatto invitandoli ad alzare il tono della protesta. E partirono i cori: “Carotenuto, mariuo’, mariuo’”. Il colonnello era un uomo di altri tempi, i cori di gentaglia dedita al gioco d’azzardo non lo turbavano più di tanto. Disse allo speaker di annunciare l’arrivo ufficiale, ma questi gli consigliò di prendere tempo, di far finta di ponderare una decisione già presa. Il colonnello, lo speaker, l’handicapper, il giudice d’arrivo e il fotografo erano di fatto prigionieri, ma comunque al sicuro, protetti da una porta di ferro. Di annullare la corsa il colonnello non ci pensava proprio. Avrebbe dovuto sottoscrivere un rapporto all’ente tecnico di stanza a Roma spiegando i motivi dell’annullamento.

Un falso che non avrebbe mai fatto. Flaming Star per il colonnello aveva corso malissimo, cose che capitano. “Era stato fermato” per Alberto. “L’hanno fermato”, era un po’ il ritornello che ripetevano i giocatori quando un cane molto appoggiato deludeva le attese. Ma come si “fermava” un favorito? Potevano farlo praticamente solo gli uomini che li avevano in cura.

Tra i giocatori si raccontavano metodi fantasiosi: il raschiamento dei polpastrelli con carta vetrata, lo “strozzamento” dei testicoli durante il massaggio precorsa. Per “fermare” un cane in realtà bastava farlo bere abbondantemente anche un’ora prima della corsa, meglio ancora se gli si dava pure da mangiare. Se all’acqua si aggiungeva qualche goccia di valium anche un campione sarebbe stato trasformato nell’ultimo brocco.

Per Carletto era lampante: Flaming Star era stato “fermato”. La prestazione deludente poteva essere frutto di un lieve malanno accusato durante la corsa, ma il fatto che gli allibratori clandestini lo avevano bancato a Pasquale a una quota spropositata non trovava logica giustificazione. I clandestini non sono degli sprovveduti: qualcuno di loro aveva corrotto un assistente. Non necessariamente l’assistente di Flaming Star. Un paio di polpettine addolcite con un sonnifero potevano essere state sistemate nel box di attesa da qualsiasi operaio del cinodromo e divorate da Flaming Star prima della vestizione. Anche questa era un’ipotesi plausibile.

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Di certo Alberto era stato tradito proprio da un suo dipendente. Una beffa che l’avrebbe reso ridicolo una volta in più agli occhi di Pasquale. Intanto trascorrevano i minuti senza che accadesse nulla. Anzi quasi nulla, perché la folla di scommettitori che urlavano “Carotenuto mariuo’, mariuo’” si era ingrossata. Qualcuno nemmeno aveva scommesso, ma chi aveva investito fortune su Flaming prometteva grosse mance se la corsa fosse stata annullata. Erano quelli che non avevano scommesso i più scalmanati, quelli che picchiavano con i pugni sulla porta di ferro.

Il colonnello decise che bisogna fare qualcosa; prese il telefono e cercò di rintracciare a casa il vecchio Federico, ma non vi riuscì. Era deciso a convalidare la corsa, ma gli altri prigionieri gli consigliarono di aspettare ancora, almeno fino a quando i cori “mariuo’, mariuo’” si fossero placati. Il fotografo fu più esplicito: “Colonnello non fate fesserie, di qua non ci faranno uscire vivi”. Il colonnello non era il tipo da cedere per paura. Riprese il telefono e chiamò la polizia.

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Una gazzella in una decina di minuti varcò i cancelli del cinodromo. Due agenti in divisa si diressero sulle tribune dove stazionavano gli scommettitori. “Siamo stati derubati – gridavano – arrestateli tutti”. Arrestare chi? I giudici prigionieri che avevano allertato il 113? I due agenti chiesero di parlare con un responsabile, gli indicarono l’ufficio di Alberto. “É deplorevole che i giudici siano assediati e che qualcuno ha fatto sparire la chiave. I frequentatori del cinodromo sono persone tranquille, ma stavolta hanno esagerato…”. Dal colloquio con Alberto i due agenti uscirono con le idee confuse. Sparita la chiave? Quale chiave? Quella del bunker dei giudici. I due agenti ritornarono dal collega che presidiava la gazzella e contattarono la centrale. Dopo un quarto d’ora arrivò un’altra gazzella con a bordo, il vice questore Amodio, anche egli accolto al grido di “mariuo’, mariuo’”.

Amodio cercò di fare chiarezza, interrogò Alberto, gli chiese della sparizione della chiave, ricevendo questa risposta: “Non è un problema. Ho i doppioni in cassaforte. Due minuti e le faccio avere la chiave, così può parlare al colonnello”. Parlare di cosa? “Veda dottore Amodio, quella gente è convinta di essere stata derubata, non se ne andrà. Lei che fa chiama i rinforzi? Organizza una carica quando sono sufficienti tre righe scritte dal colonnello Carotenuto per mettere tutto a posto”. Si spieghi meglio. “Io sono il proprietario del cinodromo, se si annulla la corsa ci rimetto solo io. Certo non mi fa piacere, ma per quieto vivere non mi opporrei a questa soluzione. É sufficiente che il colonnello scriva di aver avuto la sensazione che un gabbia si sia aperta un frazione di secondo dopo le altre. Ecco il doppione della chiave, per favore parli con il colonnello”. Il vice questore Amodio aveva capito che Alberto aveva interesse ad annullare la corsa, ma in fondo il suo compito era quello di ristabilire l’ordine, liberare i prigionieri, possibilmente senza un’azione di forza che i suoi superiori non avrebbero condiviso. In fondo a chi poteva interessare se al cinodromo avevano annullato una corsa. Decise quindi di andare a parlare con il colonnello. Trascorse mezz’ora nel bunker prima del suono della sirena.

Lo speaker ufficiale annunciò: “Il giudice unico, interrogati gli addetti alle gabbie di partenza, ha accertato che presumibilmente per un calo improvviso di corrente, una delle gabbie si è aperta in leggerissimo ritardo. Pertanto la corsa è annullata, le scommesse rimborsate, la riunione è sospesa”. Un boato accolse le ultime parole dello speaker. Il colonnello aveva firmato un verbale mendace. Era stata la prima e l’ultima volta. All’ente tecnico di Roma, insieme con il verbale, arrivarono anche le “irrevocabili” dimissioni per “gravi motivi familiari”. Carletto recuperò le duecentomila lire e giurò a se stesso: mai più al cinodromo, qui i ladri rubano ai mariuoli.

Non fu facile dopo sei anni senza mai saltare una riunione, ma Carletto fu di parola. Alberto dimostrò a Pasquale che lui contava qualcosa. Ma anche questo non era vero. Il vecchio Federico, il giorno dopo gli comunicò che era stanco, aveva intenzione di vendere. Anzi aveva già un compratore. Alberto non aveva la forza di ripianare i suoi debiti, il cinodromo passò velocemente di mano. Cambiarono i padroni, cambiarono i vertici. Giannone si ritirò in pensione.

Le corse andarono avanti tra alti e bassi. Un omicidio, camuffato da rapina, eseguito nel 1984 negli ex uffici di Alberto durante le corse, segnò il punto di svolta. Molti scommettitori, quelli più rispettabili, si allontanarono definitivamente, il cinodromo fu sul punto di chiudere più volte. Nel 1997 spuntò un articolo nella formulazione della legge finanziaria ’98 che dava la possibilità di scommettere sulle corse dei cani nelle agenzie ippiche. Una holding contattò i proprietari del cinodromo Domitiano: se la legge fosse stata approvata avrebbero rilevato la struttura investendo grosse cifre per la rilanciarla sul modello dei cinodromi inglesi. In sede di approvazione, passò un emendamento che abrogava l’articolo.

Il cinodromo Domitiano chiuse subito, i levrieri affidati in adozione. Quattro anni dopo il cinodromo romano di Ponte Marconi fece la stessa fine. Quello milanese del Vigorelli era stato chiuso durante la guerra. I permessi per riaprirlo negli anni Settanta furono prima concessi dal sindaco Aniasi e poi revocati dallo stesso sindaco su pressione degli animalisti. La pista del cinodromo Domitiano recentemente è stata rasa al suolo.

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Il mercato al cinodromo

La tribuna resiste, è ancora lì. La domenica mattina gli spazi dell’ex cinodromo Domitiano ospitano un mercatino delle pulci. Provvisoriamente perchè un bando del Comune assegnerà presta l’area di cinodromo, zoo ed Edelendia a nuovi investitori. Nelle notti dei lunedì il fantasma di Angel Hill s’aggira tre le prostitute di mille colori tra viale Kennedy e la piscina Scandone. Lì dove una volta i levrieri irlandesi inseguivano un pupazzo camuffato da lepre.

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4 pensieri su “Febbre da levriero

  1. Luciano

    Ho avuto il piacere di frequentare il. Cinodromo domitiano fra il 1976/1983 . C’era gente di tutti i tipi. Prifessionisti misti a gente del popolo. Tutti amalgamati dal fascino delle corse dei greyhound. Angel hill , betzabea , boher boy, daring, cow boy e prima …. Long stop , computer queen . Tutti nomi che possono voler dire poco, ma che hanno segnato il cuore di chi sognava di indovinare una srrategia , una tattica vincente. A tutti gli appassionati…… Un virtuale abbraccio!!! Luciano Circognini.

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  2. Federico Gueli

    Sono tutti bravi con la pelle degli altri.
    LE CORSE DEI CANI hanno ucciso 1 milione di levrieri in 90anni. Nessun rimpianto che queste storie siano ormai solo POLVERE!

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  3. Luigi

    A chi ha scritto tutto questo vorrei chiedergli se per caso ha ancora la foto intera della persona che accarezza il levriero

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  4. Nicola

    La solita parola che si sente “sfruttamento dei cani da corsa “” …ma X i cavalli nn è la stessa cosa!?li nn ci sono legge severe ?perche i primi giocatori di cavalli sono i politici !!se è sfruttamento deve essere c tutti ed il cinodromo (corsa dei cani )era UN attrazione unica X la città di Napoli …NICOLA FUCCI!

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