Seppur contrastati a Capua con efficacia da Lucio Caracciolo, duca di Roccaromana, i Francesi si accingevano a marciare trionfalmente su Napoli mentre Ferdinando IV, abbandonata la reggia, s’imbarcava sulla Vanguard di Orazio Nelson alla volta di Palermo.
In un clima di grande incertezza, il 28 dicembre 1798, il commodoro inglese Mitchell – su input di Nelson – dava l’ordine di distruggere la flotta militare borbonica alla fonda.
Le grotte di Posillipo, utilizzate per l’ormeggio ed il rimessaggio delle barche cannoniere, s’illuminarono a giorno per l’incendio dei piccoli legni, mentre in rada, uno dopo l’altro, s’inabissavano tre vascelli, una fregata, una corvetta ed alcuni bastimenti minori. Occorreva sottrarle ai giacobini fu detto. In realtà, come scrisse Pietro Colletta potevano essere trasferite con la famiglia reale, a Palermo. Però, se fosse andata così, Nelson avrebbe perso la preziosa opportunità che la Storia gli offriva di eliminare la temibile concorrenza nel Mediterraneo della flotta del Regno delle Due Sicilie e di accentuare l’influenza britannica sull’alleato duosiciliano.
Colate in fondo al mare, il ricordo di quelle navi restò confinato nei libri di storia e nella conoscenza degli studiosi. A spolverarlo negli Anni ’80 fu Antonio Parlato il quale, oltre a detenere il record delle interrogazioni parlamentari, era un tenace ed illuminato ricostruttore della memoria storica di Napoli e del Mezzogiorno. E fu grazie ad uno dei suoi atti ispettivi se molti napoletani appresero che, nei pressi della diga Duca degli Abruzzi e del Molo S. Vincenzo, ad una profondità non proibitiva, giacevano il vascello “S. Gioacchino”, la fregata “Pallade” e la corvetta “Flora”.
Il parlamentare napoletano ben conosceva gli effetti che sarebbero derivati dal recupero dei relitti delle antiche navi dai fondali marini, dal loro restauro e dalla conseguente valorizzazione, in termini di opportunità occupazionali, turistiche e culturali. Per queste ragioni intraprese una martellante opera di sensibilizzazione per ottenere che il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali effettuasse i fondamentali rilievi per monitorare l’esatta giacitura e lo stato di conservazione dei relitti e per valutare le tecniche più appropriate al loro recupero.
Allo stesso tempo, riprendendo con forza un’idea della sezione napoletana della Lega Navale, Parlato, proponeva di creare, nell’insula del fu Regio Arsenale Navale borbonico, il “Museo del Mare”. Un sito altamente strategico trovandosi, immediatamente a ridosso dell’importante terminal crocieristico napoletano, con ampi spazi e strutture idonee a valorizzare i reperti navali e, soprattutto, a ricomporre l’anima marinara di Napoli.
Un’anima ridotta a brandelli, seppur ben conservati in cinque diverse strutture museali distanti tra loro per gestione e localizzazione: il Museo del Mare di Napoli, il Museo Navale dell’Università “Parthenope”, il Dipartimento d’Ingegneria Navale dell’Università “Federico II”, la sezione navale del Museo Nazionale di San Martino, il Centro Studi e Tradizioni Nautiche – Lega Navale Italiana di Napoli.
Col mutare degli scenari della politica e la volontà, manifestata dal governatore della Regione Campania, Stefano Caldoro, di rilanciare il ruolo del Porto di Napoli, con il finanziamento dei “grandi” progetti, a molti sembrò che si stesse concretando quella “rivoluzione copernicana” nella ricostruzione della memoria storica che di lì a poco avrebbe arricchito il patrimonio culturale cittadino con una realizzazione in grado di capitalizzare l’enorme flusso di crocieristi.
Tra le iniziative contemplate dal “grande progetto” per il porto, finanziati con fondi Ue dall’Ente regionale, figuravano, infatti, il recupero ed il restauro dei relitti e reperti di archeologia navale sparsi sui fondali del porto di Napoli, l’allestimento di uno spazio da adibire a cantiere di restauro all’aperto e di spazi espositivi (progetto dichiarato ammissibile dall’Unione Europea e finanziato con 6 milioni di euro) e la realizzazione di spazi espositivi in area portuale di materiali provenienti dagli scavi archeologici (anche questo finanziato dall’ Ue con 2 milioni di euro). Sembrava cosa fatta… invece, parafrasando l’antico adagio popolare, erano cambiati i suonatori ma non la musica.
Napoli è la città delle contraddizioni e dei paradossi: c’è la disponibilità dei fondi, ma il Grande progetto non riesce a prendere corpo. Del recupero delle navi, degli spazi espositivi esiste un progetto finanziato ma se ne sono perse le tracce. Anche sull’iniziativa del Museo del Mare e della Emigrazione formulata dal Propeller club che doveva prendere corpo negli edifici del molo S. Vincenzo è calato un inspiegabile silenzio.
Si sa, è in atto una spietata lotta tra i partiti, Regione e Comune per l’occupazione dello scranno più alto dell’Autorità portuale di Napoli, al momento commissariata. Il compunto presidente Caldoro ha però tenuto a precisare che i ritardi accumulati nell’indizione delle gare d’appalto per i lavori previsti dal “Grande” progetto sono tutti da imputare alle procedure farraginose della macchina burocratica.
C’è del vero in questo, tuttavia, è legittimo congetturare che questi ritardi, accompagnati dal greve silenzio di chi dovrebbe vigilare sul rispetto dei tempi, costituiscano la felice quanto ordinaria congiuntura che permette agli im-“prenditori” di artigliare risorse economiche e pregiati pezzi del patrimonio monumentale – paesaggistico cittadino.
La mente va allo scempio della Mostra d’Oltremare…
E prosegue ancora oltre, ricordando che l’unica complessa inchiesta che abbia avuto una reale efficacia (anche se limitata nel tempo) sulla commistione tra politica e affarismo a Napoli, mandando in galera un bel po’ di gente tra deputati, sindaco ed assessori, risale al 1900 e alla commissione presieduta da Giuseppe Saredo, senatore del Regno.
Il silenzio sul “Museo del Mare” potrebbe quindi rappresentare il “cavallo di Troia” per un’ennesima privatizzazione di beni pubblici avente questa volta per obiettivo le strutture di pregio del molo San Vincenzo e dell’ex base navale del Molosiglio.
Certo i cittadini attivi potrebbero sostituirsi agli enti di vigilanza utilizzando le vigenti procedure per la trasparenza degli atti pubblici. Potrebbero dar luogo a vibrate proteste, comizi, cortei, sit-in, adunate e quant’altro.
Potrebbero … al momento, purtroppo, ogni risorsa umana è mobilitata per ribadire l’infinito ed immarcescibile amore per Napoli nel quindicinale fragoroso e fantasmagorico rituale “pedatorio” fuorigrottese.
Il Museo del Mare e’ stato fatto una decina di anni fa e,per la sua attuazione, sono stati spesi oltre 5 milioni di euro.In breve,si penso’ di localizzarlo alla Immacolatella Vecchia, storico edificio che ha
ospitato prima la Capitaneria del dopoguerra ed in seguito abitazioni dei nilitari della stessa Capitaneria. Fu avviato lo statuto,ed eletti il consiglio di amministrazione del Museo del Mare.
A presidente del Museo del Mare un giornalista,Francesco Durante, del Corriere del Mezzogiorno se non erro.Il problema era quello di liberare lo storico edificio dell’Immacolatella Vecchia: un Comitato Portuale (una sorta di Consiglio di Amministrazione dell’ Autorita’ Portuale) approvo’ l’acquisto
di una decina di appartamenti dove ospitare le famiglie dei miitari.Il posto prescelto inizialmente era stato individuato a San Giovanni a Teduccio, adiacente alla centrale elettrica.Poi, fu scelto il Corso Meridionale. I dieci appartamenti stanno ancora li’ con ospiti che non hanno nulla a che vedere con i militari della capitaneria.Chissa’ se pagano il fitto quegli inquilini ed a chi.
La ringrazio, innanzitutto, per l’attenzione. Quel che dice risponde a verità, solo che si tratta dell’altro museo fantasma, il “Museo dell’Emigrazione”. Di quest’ultimo ho scritto nel mio articolo precedente titolato “La malinconia civile”.
Grande competenza storica, fascino ed eleganza. Bravissimo Lidio Aramu