di Marco Catizone
“Per negligenza il soffitto crolla e per l’inerzia delle mani piove in casa” (Ecclesiaste, Antico Testamento).
Cronache dalla città dei crolli, cronache da purpetielli e melloni ammaturi, cronache da casamicciole sgocciolanti, tendoni circensi enfi di canicola e sicumera, piantati alla men peggio nel barnum ridondante, rigagnoli interrotti che pencolano riversandosi nel buco nero d’una città illividita che lecca le ferite, piange ai funerali, jastemma in preda ad enfasi miracolosa, svapora nel suo mare, nei miceti porosi della sua Mappatella, bitch on the bitch che sotto ‘o sole ‘a pece brucia, e di svacantare questi bidoni infuocati nel cantero stradale siam stanche pure noi, animelle puttane, che a battere è sempre l’ora più ingiusta, quando muoiono gli inermi.
Che poi siam vermi, è risaputo, strisciamo nelle fole terrene, lo capì anche Mastriani, che le ombre s’allungavano a nosferatu sulle pietre scardate del golfo, che non bastava il tartaro desertificato d’un Lungomare a linea maginot, per contare le ore all’esarca morente, l’estate del patriarca, ad arginare i lemuri spugnosi che spernacchiano una bandana fetente, annerita e ammappuciata, buttata via a spurgare le vene sub-metropolitane di un feudo a gragnuola, attinto e sbrindellato, colabrodo per incoltura di buche, sampietrini, saittelle, zoccole, scarrafoni, calcinacci, polvere, cornicioni, e abitanti in caduta “libberata”, a schiantarsi sul cemento liquido di una strafottenza centellinata, goccia a goccia, a formare basoli e stalattiti, monte di venere a crocifiggere l’insipienza d’un pezzotto dioscuro, Marte in Comune tra noi, latitante da tutto, anche da morte altrui (se non quando conviene all’abbisogna).
Che a metterli in fila, i grani del rosario, sono acini neri e senza luce, malocchio esaudito; che a metterli in fila, quattordici anni di strafottenza amministrativa, uroboro di fallaci responsabilità, sono raschio e sputo sulle vesti a calzoni corti d’un ragazzino ormai morto, elettrico, insaziabile, nei suoi quattordici anni; che a metterli in fila ne fai catena da accollare, peso, gravo e gravune nire a signare ‘a ciorta, tenendo in caldo il posto segnato per cianotica presenza, per guitto politicante a mezz’asta, per gonfalone infiacchito, per vescovile lisergica costumanza, dell’esserci per presenziare; e “mi si nota di più se vengo, se rimango, se svengo, in disparte, annichilito, amminchioluto, basito, basilare, o meglio balneare, che lo zenit è a picco, il sole spacca, ne anelo spicchio”? E dunque no, al sodo, meglio sedare gli animi brontolii borborigmi e rhythm’n blues, meglio la fuga in Re minore, l’eclissi totale a rischiarare il lutto, da giocarsi sulla ruota pure quello, assistiti femminielli e bancolotto, ‘o bussolotto è gravido, e spinge, votta fora, esce ‘o nummero e jammebbelle: quattordici! ‘A morte.
Bifore e lastroni, t’affacci e vedi il corpo; crolli fortissimamente crolli, s’infracita la quinta, teatro e palazzoni a far contorno, per defaillances di Palazzo; e cadono ordinati, è domino, ammanco, nuances scolorite per Comune sventura, che la città è vacante, è staggione, ‘o frisco, la processione signò ‘a vedite ‘a prucessione, e se scappa il morto c’è sempre spazio per refrisco e cunzulazione, che oggi è oggi, ma dimane passa: come ‘a nuttata, come ‘a malacqua, come universale giudizio che tutto dilava, come prece asettica da sparger sulle mani, imposte sulla città, gabelle a depredare torcere svacantare, taumaturgico tocco di reuccio e margravio medievale, e le scrofole evaporano, le pustole schiattano, la peste è indulgenza, da mettere in conto e riscattare, chè basta pagare, e a qualcuno tocca il conto; stavolta a un ragazzino, e domani…domani chissà.
Silenzi e sospiri, questo rimane della liturgia e del rito, la tragedia è sempre un numero; una tacca in più, una cerimonia in surplus, una messa scalza per cittadini-sudditi che s’amalgamano nella cum-passio, e poi torna riscacca, che il numero non è il nostro, che la ruota gira, che sempre “sotto al cielo stiamo, che dio ce penza e ‘a maronna ‘o vede”e tutte le salme finiscono in gloria. Ammèn.
bellissimo e verissimo, complimenti!