Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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Si fa presto a dire Woody Allen

di Valerio Caprara

Si fa presto a dire Woody Allen: ma se si esclude l’evidente affinità della visione sogghignante e disillusa dei legami amorosi in generale, il ritmo, le battute, il tono del maestro hanno poco in comune con il taglio stilistico della figlia del grande commediografo Arthur, nonché (invidiatissima) consorte di Daniel Day-Lewis

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Un minitest personale ha già evidenziato l’aspra divaricazione dei giudizi tra i reduci di Il piano di Maggie.

E in effetti la commedia indipendente di Rebecca Miller, molto applaudita in un paio di festival importanti, sembra fatta apposta per blandire certi gusti irritandone altrettanti: non a caso la trentaduenne Greta Gerwig di Mistress America ce la mette tutta per mettere nuovamente a bagnomaria la protagonista nei clan radical chic newyorkesi, nelle giuste location di riferimento e nei relativi, stranoti vizi psico-comportamentali.

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Si fa presto a dire Woody Allen: ma se si esclude l’evidente affinità della visione sogghignante e disillusa dei legami amorosi in generale, il ritmo, le battute, il tono del maestro hanno poco in comune con il taglio stilistico della figlia del grande commediografo Arthur, nonché (invidiatissima) consorte di Daniel Day-Lewis, che batte talvolta la fiacca volendo accostare a tutti i costi le eterne irrequietezze delle “ragazze in gamba” epigone della sophisticated comedy alle problematiche sociali oggi più in voga non solo oltreoceano.

Il lungo prologo, in ogni caso, include la parte più riuscita del film grazie al buffo più che nevrotico progetto della Maggie del titolo, convinta che tutte le sue relazioni siano destinate al fallimento e che le sue ansie di maternità incalzate dal rintocco del cosiddetto orologio biologico possano essere risolte solo ingaggiando un docile donatore di seme.

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Una fase in cui anche lo spettatore non in grado di cogliere le allusioni più trendy –come quella che tira in ballo il deleterio filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Žižek- può divertirsi al cospetto di un vero e proprio gioco dell’oca della goffaggine e del fallimento (memorabile l’inseminatore tonto che vende i cetrioli sottaceto nei mercatini alternativi), però femministicamente sbilanciato a sfavore del maschio alias lo scrittore, guarda un po’ frustrato, John interpretato quasi con rassegnazione da Ethan Hawke sempre uguale a se stesso.

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Purtroppo da quando quest’ultimo convince Maggie a formare una coppia, per così dire, normale e l’iter coniugale non tarda a mostrare le sue disastrose crepe, il film non ha più molto da inventare e tenta di cavarsela concentrandosi sullo show di Julianne Moore, deliziosamente gigiona (in originale s’esprimeva per di più in uno spudorato birignao anglo-scandinavo) nelle pirotecniche mise di atteggiatissima ex moglie del bamboccio John.

Il girotondo nei mitografici meandri della Grande Mela si trasforma così, inesorabilmente, in una suite di scenette a tema sull’egotismo come malattia mortale del ceto intellettuale/ombelicale. Dunque carino o insopportabile? Per noi la risposta sta nel mezzo e non è proprio un complimento.

 

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