Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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Woody Cafè

di Valerio Caprara

Considerando l’offerta cinematografica attuale, appare cosa buona e giusta lasciarsi andare al piacere del relax collaudato e alla partitura ricca delle tonalità crepuscolari che non mancano mai al tocco di un artista alieno dalla retorica e il compiacimento di categoria

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Critico contro critico. Di slancio viene subito da dire che “Café Society” presenta un Woody Allen nuovamente in stato di grazia, pienamente a suo agio nel gestire una schermaglia ironica e sentimentale negli Usa anni Trenta e felicemente in sintonia con la scioltezza e l’armonia del cast, la qualità dei dialoghi e la fotografia mirabolante del mitico Storaro.

Nello stesso tempo, però, occorre respingere l’assalto dei pensieri impertinenti decisi a convincerci che si tratta di una commedia più raffinata che divertente; la cui elegante effervescenza, cioè, non fa avanzare il plot ma lo riempie fino a esaurirsi nel replay di boutade, quiproquo, stoccate e aforismi portati a compimento se non meglio, più energicamente da molti e molto amati titoli precedenti.

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Alla fine dell’intimo duello, però, considerando anche l’offerta cinematografica attuale, appare cosa buona e giusta lasciarsi andare al piacere del relax collaudato e alla partitura ricca delle tonalità crepuscolari che non mancano mai al tocco di un artista alieno dalla retorica e il compiacimento di categoria.

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Sembra, in effetti, di non essersi mai alzati dalla poltrona di una sala dove scorrono le immagini del cinico edonismo losangelese contrapposte a quelle più grossolane eppure sensuali e vitalistiche delle umili enclavi newyorkesi: ecco, così, l’ingenuo Bobby interpretato dall’Eisenberg perfetto avatar del cineasta, costretto a fare la spola tra gli opposti scenari mettendosi al servizio dello zio agente dei divi, innamorandosi di una dolce segretaria a cui la Stewart ex “Twilight” regala una tale luminosità da rendere opaco qualunque personaggio le si pari in controcampo, spendendosi nei party mondani, tornando con le pive nel sacco nel Bronx, mettendosi in società con il fratello gangster per la gestione di un night che diventerà un ritrovo di celebrities e via colluttando col destino fino a cambiare e maturare o forse no.

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Sullo sfondo dell’apologo cosparso dalla polverina magica del revival, ma mai rassegnato a farsi cullare dalla banale nostalgia o dal rosario di battute in bilico tra luogo comune e radicato pessimismo (“La vita è una commedia scritta da un autore sadico”) fanno via via capolino, con la discrezione cara ai cinefili e forse un po’ impalpabile per lo spettatore svincolato, la grazia di Mankiewicz e Wilder, il glamour degli Astaire, i Flynn e le Garland, lo struggente leitmotiv degli amanti perduti di Scott Fitzgerald, i rapsodici contrappunti del jazz, le scorciatoie fuorvianti delle ortodossie religiose, ideologiche o morali e le cupe premonizioni dell’imminente mattatoio mondiale.

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La dissolvenza implacabile del tempo -ha fatto dire più volte ai suoi personaggi e lo fa dire anche stavolta Allen- rende consapevoli che una volta defunti non lasceremo quasi tutti alcuna traccia sulla terra. C’è una forte possibilità, però, che questo non accada nel caso di un genietto ebreo di Manhattan.

 

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