di Adolfo Mollichelli
Wembley oh caro. Nel tempio s’è interrotta la stipsi azzurra del gol che durava da 374 minuti, un’eternità. Da Candreva a Tirana (lo scorso 9 ottobre) a Insigne a Londra. Nel nuovo Wembley nel quale Pazzini impose il pari (3-3) ai colleghi under ventuno della perfida Albione. Alleluia, è il tempo.
La prima volta che espugnammo Wembley fu per merito di Capello il bisiaco Esultammo davanti alla tv, era il 14 novembre del ’73. Valcareggi era il ct.
La seconda volta eravamo lì. Era il 12 febbraio del ’97. Guidava gli azzurri Cesare Maldini. Il gol di Zola.
Il pezzo quasi completato perché Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro si disputavano in napoletano stretto le gambe di spauracchio Shearer.
E si era capito lontano un miglio che per lo spietato bomber del Newcastle nun ce stéva nient”a fa. Però il computer si bloccò in trasmissione annullando il mio anticipo. Riscrissi il pezzo smoccolando. E i colleghi più vicini in tribuna non ebbero il coraggio di placarmi.
Europei d’Inghilterra (1996) con Arrigo Sacchi timoniere. Reduce dalla finale mondiale di Pasadena persa ai rigori con il Brasile. Squagliati dal caldo afoso. Col pensiero fisso ai gabinetti chimici lontani un chilometro per un’ostrica malata che era capitata nel mio piatto (e a chi, se no) nel ristorante tutto lanterne e striscioni tricolori di un salernitano amico di un amico. E Dustin Hoffman che rideva alle nostre spalle. I computer protetti da occasionali cartoni e fogli di giornale.
Wembley, il grande sogno. Ma Londra era lontana. Sì, Liverpool ed i Beatles ci sorrisero. Anfield Road fu ouverture magnifica. Doppietta di Casiraghi e quel simpaticone di Matarrese sentenziò: andremo a spegnere le luci di Wembley.
Obiettai: sicuro, presidente? Intanto, Righetto fece la sua rivoluzione contro la Repubblica Ceca.
Sempre a Liverpool dove il collega Svalduz dell’Ansa mi costrinse per la quinta volta a visitare il museo dei Beatles ed a percorrere i misteri del Cavern Club. Fuori Casiraghi e Zola. La zona sacchiana fu schiantata da un biondino chioma al vento: Pavel Nedved.
Perdemmo 2-1. Restava da visitare il teatro dei sogni, l’Old Trafford. La Germania impose il nulla di fatto. Zola sbagliò un rigore. Fuori dagli Europei. Le luci di Wembley le spegnemmo noi della stampa. Anche per quel simpaticone di Matarrese. Finale vinta dalla Germania sulla Repubblica Ceca. Golden gol di Bierhoff.
Wembley 2018. Insigne che risponde al gol di Vardy che neppure scapoli contro ammogliati. Un pizzico d’azzurro anche se la divisa è a tutto azzurro. Una boccata d’ossigeno. Risultato di prestigio, si dice così. E sempre meglio che fare la figura dell’Argentina (che ci aveva battuto secco a Manchester) legnata sei volte sei dalla Spagna che continua ad essere razza padrona. Italia da ricostruire, ma non tutto è da gettare al vento.
I giovani che al prossimo mondiale saranno un po’ meno giovani ci sono. Ci sarebbero. Basta saper scegliere ed avere il coraggio di lanciarli.
Considerazioni spicciole: non bastano due undicesimi della creatura sarriana per avere qualche bollicina del calcio champagne nato all’ombra del drone nel laboratorio di Castelvolturno. Jorginho, che il Brasile non rimpiange, appare fuori contesto. Insigne si sbatte, s’impegna ma non è magnifico come quando gioca tra San Paolo e dintorni. Intanto, merito allo scugnizzo per aver piazzato il penalty alle spalle del pipelet Butland (chi era costui?).
Okay Rugani che Sarri avrebbe fortemente voluto. Strano destino del corazziere: gioca più in azzurro che nella Juve. Il neo Candreva: proprio non va nella scelta delle giocate, cross quasi sempre in ritardo e spesso sballati. Da lanciare titolare, definitivamente Chiesa figlio d’arte. Donnarumma erede (forse) di Buffon ma deve imparare a calciare. Non credo che Reina neomilanista possa fargli da maestro perché il gigante bambino è destinato alla cessione per mettere un po’ di danaro liquido nelle casse semivuote dei cinesi di Nanchino. Centrocampo: benino Pellegrini e va decisamente lanciato Cristante, figlio della Dea.
Capitolo bomber. Da capire perché Immobile – che in campionato e coppa è devastante – in azzurro diventa un mediocre di successo. Salvo il frenetico andare, forse in ricordo di quando Zeman gli diceva: cerca di non fare onore al tuo nome. E dovrà crescere anche Belotti sempre più ingobbito e stranito.
Capitolo ct. Incombono Ancelotti, Conte che sarebbe un ritorno, Mancini che va bene quando ha fior di giocatori da mettere in campo, Ranieri che a Leicester definirono “aggiustatore”. Per quel che può contare, lascerei la Nazionale a Di Biagio che è un tecnico di spessore e non merita di essere un semplice traghettatore.
E poi, gran parte della bella storia dell’Italia calcistica l’hanno scritta i cosiddetti federali: da Bearzot a Vicini a Maldini. Gigi Di Biagio è stato un centrocampista di combattimento. Sarebbe opportuno che i candidati alla giovane Italia (Mazzini non c’entra) apprendessero dal vivo che cosa significhi una vita da mediano.
Sta bene