Adolfo Mollichelli

Adolfo Mollichelli

Giornalista. Ha lavorato con il Roma ed il Mattino. Ha seguito, tra l'altro, come inviato speciale cinque Mondiali, altrettanti Europei, nove finali di Campioni-Champions e l'Olimpiade di Sydney

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Il Cristo Che

di Adolfo Mollichelli

Chiedetegli chi erano i Beatles ed i ragazzi di oggi vi risponderanno subito, Chiedetegli chi fu Guevara e molti esiteranno. Penny Lane è più vicina di Villagrande. Lo mostrarono al mondo in una fotografia straziante. Stava di piedi come il Cristo del Mantegna. Con le mani amputate. Per ordine del dittatore boliviano Barrientos per dare modo alla polizia argentina di identificarlo con il riscontro delle impronte digitali. Era il corpo martoriato di Ernesto Guevara de la Serna, il Che, giustiziato il 9 ottobre del 1967 nel villaggio andino de La Higuera, il posto dei fichi. Il 14 maggio aveva compiuto 39 anni. I corpi del Che e di sei dei suoi compagni furono gettati in una fossa comune. Furono ritrovati trent’anni dopo, il 28 giugno del 1997. Da allora il Che e i suoi guerriglieri riposano in un mausoleo nella città di Santa Clara.

 Fedor Dostoevskij, Martin Luther King, Ernesto Che Guevara. Di ognuno serbo una frase, nella mente e nel cuore, regole di vita che mi hanno preso ed affascinato molto più di un sermone vuoto del pretaccio di turno. E dire che negli anni della fanciullezza fui anche paggetto – e poi scout, ma già era un’altra cosa – a San Lorenzo Maggiore dove Boccaccio incontrò Fiammetta.

Fedor Dostoevskij

Fedor Dostoevskij

Lo scrittore russo: nessun ideale vale le lacrime di un bambino tormentato senza colpa.

Martin Luther King

Martin Luther King

L’attivista statunitense difensore dei diritti civili: I have a dream…io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Che Guevara

Che Guevara

Il medico e rivoluzionario argentino: siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo.

In comune ebbero l’amore per ì più deboli, i più indifesi. Come Francesco d’Assisi, altro personaggio della storia che porto dentro di me.

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Adolfo Mollichelli

Adolfo Mollichelli

A metà degli Anni Ottanta l’allora direttore del Mattino, Pasquale Nonno, mi inviò a Cuba per un reportage. Dall’aeroporto Josè Marti fino all’ingresso nella ciudad vieja dell’Avana le gigantografie del Che ti seguono. La celebre immagine scattata da Alberto Korda il 5 marzo del 1960 che fu ritoccata per isolare il volto del comandante – via una palma e il volto di uno sconosciuto – il Che che fissa un orizzonte lontano, la barba folta, i baffi appena accennati, sotto il celebre basco la chioma nera, disordinata e fluente.

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Il Che nella foto di Alberto Korda

La mia inchiesta tra la gente. Gli anziani lo veneravano ancora. Ai giovani di allora insegnavano ad amarlo. Fidel Castro era equidistante e grato per i giorni sulla Sierra Maestra. Raul Castro era lo scettico rosso, troppo legato al regime sovietico garante della stabilità economica dell’isola.

Per il Che l’imperialismo americano e il regime sovietico erano due facce della stessa medaglia. Per i turisti, rigorosamente provenienti dalle repubbliche socialiste prima e da tutto il mondo dopo la caduta del Muro ed il ritrovamento del corpo, il Che era un volto da osservare abbinato ad una leggenda distrattamente rievocata tra un mojito e l’altro nella Bodeguita del Medio dove Hemingway amava sostare prima di stabilirsi a Finca Vigìa e vivere di mare accompagnato dallo skipper Gregorio Fuentes.

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Sono trascorsi cinquant’anni dalla morte del Che, termine che corrisponde ad un banale ehi, un’interiezione tipicamente argentina. Leggenda, icona, santo laico, il volto stampato su milioni di t-shirt e poster, emblema dei sogni sessantottini. Una fama universale, simbolo di rivolta in tutto il mondo, le gigantografie del suo volto perfino nei dormitori dei campus americani. Poi, alti e bassi fino al ritorno in auge quando il suo corpo venne estratto dalla fossa comune in cui fu sotterrato. “Stia tranquillo, lei sta per uccidere un uomo”, disse il Che all’esitante sergente dei rangers boliviani designato per l’esecuzione. L’ultimo pensiero per la moglie e i cinque figli. Venti colpi a sangue freddo. Addio, Ernesto Guevara de La Serna detto il Che.

Fidel Castro e Che Guevara

Fidel Castro e Che Guevara, il relax dei rivoluzionari

Medico, sognatore, rivoluzionario, lettore accanito, economista, scrittore, poeta, sportivo militante. Tutto questo fu il Che. E anche un assassino, la tesi degli anti-guevariani che ti sbattono in faccia il ricordo dei giorni in cui il Che guidò nel Forte della Cabaña i tribunali speciali che condannarono a morte i funzionari del regime di Batista, quei caporioni che avevano perseguitato, sgozzato ed appeso agli alberi quanti simpatizzavano per la guerriglia quando Fidel Castro ed il Che erano sulla Sierra Maestra. E che altro avrebbe dovuto fare un rivoluzionario, tendere la mano e dire la guerriglia è finita e andate in pace?

Jon Lee Anderson

Jon Lee Anderson

Il giornalista californiano Jon Lee Anderson, uno tra i più importanti studiosi del Che ricorda che Guevara non era né MandelaMadre Teresa di Calcutta e che l’iconografia è superficiale perché nell’immaginario è rimasto come un bel volto di eroe drammatico dimenticando che visse in un mondo reale.

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Fin dall’età di tre anni convive con una terribile forma di bronchite asmatica che gli impedirà di essere uno scolaro normale. Secondo sua madre frequentò regolarmente solo la seconda e la terza classe; la quarta, la quinta e la sesta le fece andandoci quando poteva. I suoi fratelli prendevano nota dei compiti e lui studiava a casa. La malattia lo tormenta.

Dopo ogni attacco è costretto a riposare a lungo e legge. Comincia con Verne, Dumas, Salgari, Stevenson, Cervantes. A dodici anni possiede la preparazione culturale di un diciottenne. La madre gli insegna il francese e legge Baudelaire in lingua originale e subito dopo il Decamerone di Boccaccio e Zola e Faulkner e Furore di Steinbeck, Mallarmé, Lorca, Verlaine, Machado, Engels. Marx, Freud. Si emoziona quando scopre Gandhi. Letture intense ed apparentemente caotiche. Sviluppa una memoria di ferro. Recita Neruda ad alta voce ed i suoi amici lo ascoltano. incantati.

Paco Ignacio Taibo II

Paco Ignacio Taibo II

Nella monumentale biografia dell’eroe argentino, Paco Ignacio Taibo II annota che una quartina perseguita il Che, questa: Era mentira / y mentira convertida en verdad triste / que sus pisadas se oyeron / en un Madrid que ya no existe (Era una menzogna, una menzogna trasformata in triste verità, tanto che i suoi passi si udirono, in una Madrid che più non esiste).

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Cresce temerario, ostinato, sicuro di sé, con una totale assenza di paura di fronte al pericolo, sviluppa una grande fiducia in se stesso e una totale indipendenza nelle opinioni. Nella democrazia dell’infanzia i suoi amici sono ragazzi di strada. A loro chiede aiuto quando un addetto al canile avvelena con il cianuro Negrita, la cagnolina alla quale era affezionatissimo. Ernesto chiama a raccolta i suoi amici scugnizzi e vanno alla ricerca dell’assassino ma la spedizione non ha successo e allora prepara un funerale in piena regola per la sua Negrita che depone in una bara e seppellisce. E senza farsi notare, piange.

La tenacia di Ernesto è sorprendente. Per mesi arriva secondo in tutti i tornei di ping pong organizzati dall’hotel Altagracia, vince sempre Rodolfo Duarte. “Mi ritiro temporaneamente dai tornei” comunica un giorno al campione locale. A casa costruisce un tavolo da ping pong e si allena per ore e ore. E quando torna in gara batte Duarte.

Il Che rugbista

Il Che rugbista

Lo sport lo attira. Gioca da portiere nel calcio, tifa per il Rosario Central. Ma è nel rugby che è particolarmente bravo. Ed è dalla palla ovale che nasce il soprannome cui tanto teneva: el Fuser, crasi di Furibondo Serna. Perché si gettava nella mischia gridando: scansatevi, arriva il furibondo Serna.

Alberto Granado e il Che

Alberto Granado e il Che

 

Andò così: al liceo di Cordoba lega con Tomàs Granado suo compagno di classe che resta affascinato dalla straordinaria aggressività di Ernesto nello sport e lo presenta al fratello maggiore Alberto perché lo faccia entrare nella squadra di rugby dell’Estudiantes. Alberto Granado ha sei anni in più (20) e sarà il compagno di Ernesto nel lungo viaggio attraverso l’America Latina immortalato dal film I diari della motocicletta, ispirato dalle Notas de viaje di Guevara.

Alberto studia medicina, osserva Ernesto e resta perplesso perché nota una respirazione ansimante che indica un vizio funzionale. Gli impone una prova che consiste nel saltare un manico di scopa appoggiato su due sedie a un metro e venti di altezza e ricadere sulla spalla. Ernesto salta e salta e salta e devono fermarlo perché non faccia un buco a terra.

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Prova superata, pochi giorni dopo comincia ad allenarsi e quindi a giocare. Spesso, a metà partita, deve andare a bordo campo ed usare l’inalatore antiasmatico. Alla fine degli allenamenti i compagni vanno via ed Ernesto estrae dalla giacca un libro e si isola dal mondo, a terra, appoggiato con le spalle ad un palo della luce, legge. Dovunque si trovi.

Quando penso al Che mi viene in mente Caravaggio. Anche la sua breve ed intensa esistenza fu tormento ed estasi.

Un argentino atipico. Incapace di distinguere il tango dalle altre musiche popolari. Aldo Isidoro del Valle, suo primo biografo, annota: il suo orecchio rifiuta il messaggio sonoro. Per poter ballare impara a memoria i passi ed ha bisogno che gli amici gli dicano di quale musica si tratti, un lento, un fox, un tango. Perfino i momenti di spensieratezza Ernesto deve costruirseli con la sua ferrea volontà di riuscire in ogni cosa.

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Si cimenta in tanti sport (baseball, nuoto, ciclismo, scacchi) oltre al rugby che è la sua vera passione. Argentino atipico anche nel calcio. Sceglie il ruolo di portiere, arquero. Anche perché da dietro poteva comandare i compagni della difesa. Era già el jefe. Riporto con piacere alcuni passi del libro sui portieri del mio amico Gianpaolo Santoro, dal capitolo intitolato la rivoluzione di Leticia. Guevara e Granado, amici, viaggiatori, sognatori, calciatori e bugiardi in quanto si accreditarono di un’appartenenza falsa, spendendo il nome del grande Pedernera, uno dei fuoriclasse di quel River Plate chiamato la maquina (la macchina) dove sboccerà il talento di Alfredo Di Stefano.

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Fu grazie ad una bugìa: siamo della scuola calcistica di Pedernera, io sono soprannominato Pedernita, aggiunse Granado (tecnicamente ci sapeva fare) che i due grandi amici riuscirono a farsi ingaggiare come allenatori-giocatori dall’Independiente Sporting di Leticia, piccolo paese del Sudamerica sulle sponde del Rio delle Amazzoni, che Ernesto ed Alberto avevano raggiunto a bordo di una zattera. C’era un torneo da disputare e un pasto caldo come premio, non male.

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Scrive Santoro: “E fu così che i due presero il comando di una squadra dalle maglie bianche e rosse verticali come il Lanerossi Vicenza di un tempo formata da ragazzotti onesti ed obbedienti, tanto lenti quanto infaticabili. Ma un allenatore visionario, rivoluzionario, certamente poeta, probabilmente un po’ pazzo – coadiuvato da un amico per la pelle dai piedi buoni ma senza carisma – in pochi giorni riuscì a trasformare quel manipolo di volenterosi in una piccola macchina da guerra. Che Guevara in panchina ci sapeva fare, leggeva la partita con arguzia, era amante della tattica prima ancora della tecnica. Granado, piccoletto e con le gambe arcuate, aveva una buona confidenza con il pallone e si mise al centro del campo. Il Che si piazzò in porta, ruolo che prediligeva perché gli consentiva di guidare a voce i difensori ed ingaggiare così una sfida personale contro gli attaccanti avversari. La squadra di Leticia arrivò in finale grazie alle straordinarie parate del Che. Perse il torneo perché il centravanti dell’Independiente riuscì nell’impresa di sbagliare tre rigori. Il Che venne considerato il migliore allenatore e portiere del torneo”.

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Grazie Ernesto Guevara de la Serna. Per aver dedicato la tua vita ad un ideale di giustizia sociale. Per aver dimostrato che la volontà è più forte di ogni malattia. Per aver giocato al calcio, al rugby. Per aver amato gli animali, gli asini ed i muli in particolare. Per averci fatto sognare un mondo migliore. Per aver ispirato a Carlos Puebla una delle canzoni più conosciute al mondo: Comandante Che Guevara (Hasta siempre) composta nel 1965 prima della tua partenza per la Bolivia dove trovasti traditori e carnefici.

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Aprendimos a quererte ./ desde la historica altura / donde el sol de tu bravura / le puso cerca a la muerte / Aquì se queda la clara / la entrañable transparencia / de tu querida presencia / comandante Che Guevara / Tu mano gloriosa y fuerte / sobre la historia dispara / cuando todo Santa Clara / se despierta para verte / vienes quemando la brisa / con soles de primavera / para plantar la bandera / con la luz de tu sonrisa / Tu amor revolucionario / te conduce a nueva empresa / donde esperan la firmeza / de tu brazo libertario / Seguiremos adelante / como junto a ti seguimos / y con Fidel te decimos / Hasta siempre, Comandante

Una nenia melensa l’ha definita il mio amico e compagno di mondiali, di europei e di olimpiadi Vittorio Zucconi nell’ambito di una sua dotta analisi sul Che scritta come al solito con competenza ed eleganza. Non ti contraddico caro Vittorio, portiere improvvisato sui ciottoli della stradina accanto al cimitero di Senlis (ricordi?) ma se avessi avuto modo di ascoltarla recitata da Franco Cava, voce e chitarra, a Punta Reginella, il balconcino sul mare di Positano, ti saresti commosso, ne sono sicuro. Hasta siempre, comandante Che Guevara.

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PS Ho tralasciato volutamente di ricordare le imprese militari del Che e le sue teorie in campo economico (non erano affatto folli). Ho scritto quello che l’emozione mi ha suggerito nel ricordo di un personaggio della storia del Novecento, di un uomo vero.

 

 

 

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