Marco Catizone

Marco Catizone

Avvocato, scrittore satirico e giornalista pubblicista. Scrive di politica, teatro e cultura su blog, siti e riviste on line.

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La Pazzia di Re Giorgio

“Finché possiamo dire: “questo è il peggio”, vuol dire che il peggio ancora può venire”.(W. Shakespeare, “Re Lear”).

Sipario. S’apre la scena, l’emiciclo è come yurta lambita dal vento, gli eventi precipitano, i barbari renziani han sfondato le difese, preso il potere, divelto le porte e cambiato financo le serrature: i torrioni d’Italique, un tempo fiera bastiglia al riparo dei Monti, hanno ceduto sotto i colpi alla cintola d’un riformismo annacquato e paraculo in salsa liberal-party, gli ex segratari son stati rottamati a calci, qualcuno a ictus, le fole Napolitane, i riti e le follie quirinalizie non abbastano a mantener “carro per la scesa”: ed è subito steppa, al di là dei moniti, oltre il monitor di Beppemao 2.0. Eppure Re George è sempre gran khan khan al centro del consesso, occupa d’istinto la scena, la cesella da esperto cerusico millenario, con progenie e servitù politicante assisa tutt’intorno: c’è da spartire il Regno, al secondo mandato, il momento è solenne. Il clan è in attesa: le elezioni sempre in bilico (ora o giammai?), le forze sempre irrise, quando non irrisorie, l’etade incalza, la senescenza ultraottuagenaria è implacabile; alfine le istituzioni saran divise, e chi tra i figliocci godrà di maggior conto e beneficio? Pone il Re canuto il suo triste rovello, e “ditemi miei figli, quale di voi diremo che ci ama di più?”

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Letta e Alfano

Un tempo aveva i Letta e gli Alfano, proni e pronti a giurare eterno, incondizionato amore al padre sempre sul ciglio dell’abdicazione (del resto chi se non Lui benedisse le strambe nozze tra i due poli smagnetizzati?); Renzi, il giovin fringuello, scaltro e indomito, puledro imbrigliato alla men peggio, forse per età o forse per ebbrezza improvvida da Potere, già si monta la caveza e no, non  giura, da Capo di Governicoli, il capo non piega al Presidentissimo intoccabile; nemmanco il Caimano pare cedere, è giovincello anche lui, più di dieci anni separano il vecio dal virgulto plastificato, ergo perché allisciare il vecchio Sire con parole vuote e altisonanti, basta che rispetti il patto, lo tenga infine nella patta, e il gioco è fatto: “Farsa Italia” cresce nei sondaggi, meglio un profilo basso e mantenere il punto, anche se dolente, anche se il chiodo batte, anche se non si batte chiodo. Fool d’Ardcore, il Cappella Matta lasciamolo nell’ombra, al magheggio tremebondo. Sorte e ripudio che tocca a mezzo Pd del resto, che i Vecchi ad esser rottamati mica ci godono, signora mia?

E dunque sfidare l’ira del khan khan Napolitano non conviene, o forse sì, chissà; dipende dalle truppe cammellate a drappello, il crinale è sempre a scapicollo, ed è il verso in cui si avanza a dare il senso: mai degradare l’essenza reale d’un potere (seppur vacuo), pagando per vezzo il prezzo d’una fiacca trama, rischiando la disfatta, divenendo zavorra, mentre da Premier sarai pur sempre in giusto peso (vero Matteuccio?).

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Matteo Renzi

Frolla e cascante la ghirba del Re, che per senescenza e vanità pagò il dazio più gravoso: riconquistato a forza il Regno per novello settennato, il caro George non volle perder il rispetto, minacciando di rassegnare mandato ove non si faccia agio alle “riforme”: elettorali, costituzionali, di rullo e gran cassa, di punta e tacco, forchetta e coltello; le tavole del Qui Rinale divengono somma scacchiera per battaglia ferale, di summa teodicea; con truppe mollemente schierate, la solita accozzaglia, con i coretti fuori dal botro, i soli pentastellati del comico in pesto genovese ed i verdognoli simil-lepenici targati Salvini (quello che indossava la felpa con su scritto “Milano” giusto per ricordare l’indirizzo di casa), perché sfidare il Re significa incorrere negli strali dei corazzieri mediatici, il lugubre e stentoreo lamento funebre per vegliardi ancora in forze. Che non si dica che il Napolitano sia canna alla mercè della tempesta, Re George, che mantiene il senno spannando il lume, spariglia le carte rovesciando le tavole all’abbisogna, come voce fuor di scena, come il Bardo redivivo: si rigenera ad ogni quadro, respira nuova linfa nelle querelles di Palazzo, perché il Re George è dramma barocco, intriso d’albagia e vanagloria, spocchia ed equilibrismo, sobrietà e “viva e vibrante soddisfazione”; poco ci manca che non diventi folle, pazzo di febbre, il vecchio Sire, per l’incapacità di riconoscere d’esser stato comunque turlupinato, che il sacrificio impostogli a nulla servì, il coup de théatre renziano ha azzerato i giochi, il tradimento degli ex compagni lo spiazza, lo annienta, annerendone lo spirito; non toccherebbe a lui saldare il conto, riannodare l’ordito d’una ragione che gli è sfuggita: i numi di lui si baloccano, perché “come mosche per ragazzi sfrenati, siamo noi per gli dei; quelli c’ammazzano per loro giuoco”.

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Quale giustizia per un vecchio ormai nudo, i fieri moniti ridotti a simulacro, triste postiglione d’un corricolo di folli? Solo le elezioni, come crudo sudario, potranno asciugarne le lacrime, perché tutti, tristi attorucoli di secondo e terzo pelo, “al peso di questo triste tempo noi dobbiamo obbedire”. Plauso agli interpreti, e al Capocomico di Pontassieve, la compagnia degli Instabili al Potere non si smentisce mai, non risparmia sudore per l’omaggio al sempre regale Napolitano: chi il più bravo? Difficile dirlo, i Nostri non deludono le attese; ca va sans dire, ombre e luci s’incastrano a meraviglia, gli attori son pedine ben mosse: strategia perfetta: scacco del Re, King George è servito, comunque la vada.

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