di Valerio Caprara
Arriva uno di quei casi in cui ci vuole un pizzico di coraggio per osteggiare il trasporto della maggioranza del pubblico che si percepisce raggiante. “Captain Fantastic”, infatti, è un tipico film “indie”, un prodotto cosiddetto alternativo che potrebbe fungere da manifesto del festival off-Hollywood di Sundance e non a caso ha elettrizzato la platea del festival di Roma dove ha vinto l’unico premio disponibile
Il secondo titolo firmato dell’ex attore di seconda fila Matt Ross gode, inoltre, del protagonismo di un ottimo attore come Mortensen, per l’occasione immerso nei ricordi dell’infanzia del regista trascorsa in seno a una comunità simil-hippy: autoconfinato tra le montagne dell’Oregon, il protagonista Ben ha allevato la famiglia secondo principi anticonformisti di stampo comunista, igienista ed ecologista.
Specialmente i figli, sottomessi a un imperioso regime di caccia per la sopravvivenza, performance fisiche estreme e letture indottrinate, lo riconoscono come padre, precettore e guru anche se a noi, piuttosto, è sembrato un tiranno vagamente demente.
Tutto scorre come Natura comanda, finché un evento funesto non trasformerà lo spot di vita libera & selvaggia (quello che i colti francofoni chiamerebbero “robinsonnade”) in un pellegrinaggio che ha come unica chiave narrativa ed emotiva la denuncia della bieca e castrante società capitalista.
“Captain Fantastic”, molto meno onestamente di quanto proponeva l’affine “Little Miss Sunshine”, si serve di sequenze che dovrebbero essere poetiche e risultano invece goffamente didascaliche (come quando Ben fa recitare la costituzionale Dichiarazione dei diritti alla figlia a mo’ di scimmia sapiente o quando svaligia un supermercato per festeggiare il compleanno dell’intellettuale fustigatore dell’Occidente Chomsky), mentre per quanto riguarda lo stile si ritrova a filmare l’anonimo grigiore dei sobborghi civilizzati esattamente come filmava l’inebriante vitalismo delle foreste inaccessibili.