di Antonello Grassi
Perché la vittoria di Trump sarebbe un cattivo segnale per il referendum italiano? Perché, si dice, essa sarebbe il frutto della rivolta contro le elites e del crollo di fiducia nei confronti dell’establishment, di cui la Clinton è una stagionata rappresentante
L’onda lunga di quel voto, si aggiunge, potrebbe travolgere il referendum italiano avvantaggiando il no perché quest’ultimo coagulerebbe l’insofferenza del paese nei confronti dell’establishment e, in particolare, del governo.
Tuttavia qui occorre fare due precisazioni. La prima è: come si fa a dire che il no alla riforma è un no all’establishment? Se si considera che:
1) Tra i suoi promotori ci sono pezzi importanti dell’establishment (in particolare nei settori della politica, della magistratura e dell’informazione), tanto è vero che si rivendica, da quel lato, la superiore autorevolezza e la pluridecennale esperienza politica di alcuni suoi campioni
2) Esso, il no, ha per obiettivo la conservazione del modello istituzionale (consociativo e largamente parassitario) che ha fin qui ha garantito la rendita delle elites di cui sopra.
Ma c’è un’altra ragione che sconsiglia di trarre conclusioni affrettate, sulla base di arditi parallelismi, per quanto riguarda il paragone tra le due consultazioni. Se infatti, in America, la scelta tra la Clinton e Trump si fosse fatta sulla base di un referendum (una testa, un voto), come qui da noi, la Clinton avrebbe prevalso: il che, sia chiaro, non toglie assolutamente nulla alle analisi fatte sul voto americano, sul suo carattere dirompente e sulla radicale trasformazione in atto nelle opinioni pubbliche dell’occidente a seguito di una crisi che sta cambiando la faccia del mondo. E tuttavia, i numeri sono numeri.