di Antonello Grassi
È andata come ci si aspettava che andasse. Cioè non benissimo per Renzi. Si sapeva da settimane che a Milano tra Sala e Parisi ci sarebbe stato un un testa a testa; mentre a Roma Giachetti era in recupero sulla Raggi, che avrebbe avuto un buon risultato e in vantaggio sulla Meloni
E che nella anomala realtà napoletana la strategia tutta politica di De Magistris, che ha avuto buon gioco a non farsi chiudere in una campagna sulla carente – per non dire nulla – amministrazione della città, stava dando evidenti risultati (e nessuno si è mai fatto illusioni sulla Valente, azzoppata dall’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere, dopo aver perso l’appoggio di una parte del partito e avendo subito l’ostilità dei bassoliniani).
Quel che forse non ci si immaginava è l’assoluta irrilevanza della sinistra, il cui elettorato immaginario si è in gran parte astenuto o ha optato per i 5 stelle.
A Milano, non ci fosse stato Sala, ma una candidatura politica di sinistra-centro, come auspicava una parte del partito, probabilmente Parisi avrebbe stravinto.
E a Roma: che Giachetti abbia convinto un quarto dell’elettorato votante (benché si sia giovato della spaccatura del centrodestra: ma il voto a Marchini non è solo di centrodestra), è stato un successo se si considera come era messo il Pd qualche settimana fa.
Data la situazione in queste città, non si capisce che cosa avrebbe potuto fare Renzi in una battaglia elettorale che, inclusa Milano (dove si è tentato di giocare la carta dell’expo), è stata giocata fatalmente sulla difensiva.
Il confronto con le amministrative di cinque anni fa è del tutto fuori luogo se si considera l’assenza, allora, di un competitor come il M5s e che una parte non piccola dei voti raccolti cinque anni fa dai sindaci del cosiddetto rinnovamento sono oggi confluiti su quel movimento (tanto è vero che uno dei sindaci vincitori di quella tornata elettorale, De Magistris, ha potuto riaffermarsi, sia pure senza imporsi al primo turno, in assenza di un vero antagonista grillino).
Del resto, nella campagna politica e mediatica anti Renzi, dettata spesso dal puro spirito di autoconservazione, si nasconde – per calcolo o per incoscienza – quale sarebbe, oggi, lo stato del Pd se esso fosse rimasto nelle mani del duo Bersani-Letta, con un Marino agonizzante a Roma e con una complicata gestione del dopo Pisapia, e mentre il paese annaspa nella crisi. È dal partito che ha fallito nel 2013 in contemporanea con l’ascesa, largamente incompresa, dei 5 stelle, che occorre partire per spiegare la situazione di oggi.
Dagli esiti di quel fallimento, che si accompagnò all’emergere di pulsioni nelle quali si mescolano frustrazione sociale e riflessi d’ordine (come avviene nella formazione dei movimenti fascisti) ci ha distratto soltanto il vorticoso attivismo di Renzi. E si fa finta di ignorare che quelle pulsioni revansciste di ceti impoveriti o emarginati dalla crisi e dalla fine dell’assistenzialismo, sono tuttora attive e operanti col rischio di conseguenze gravi sul futuro di tutti. Che l’argine renziano, esaurita la formidabile spinta delle Europee, funzioni ancora, nonostante tutto, dovrebbe stare a cuore anche alla sinistra, se una vera sinistra esistesse.