di Valerio Caprara
Per il centenario della nascita di Mario Monicelli, un originale corto circuito fotografia-arte-cinema: “Mario Monicelli e Rap – 100 anni di cinema”. Per tutta l’estate una full immersion napoletana giustificata anche dall’empatia, che un uomo non incline alle oleografie e agli entusiasmi folcloristici come Monicelli, nutriva per la nostra città.
“Si andava a mangiare insieme. Mario non metteva il sale, guardava alla bottiglia di minerale come fosse droga, ma stava bene. Aveva ancora due belle gotine rosse. Ero amico anche di Agata Apicella, la madre di Moretti, ma Nanni non c’era mai, sfuggiva, aveva paura. Tra lui e Monicelli preferivo Mario. Appena mi metteranno in clinica attaccato ai tubi, mi butterò dalla finestra anche io”. Il flash estratto da una recente intervista di Paolo Poli, strepitoso florilegio di autentico anticonformismo, può funzionare benissimo come epigrafe aggiuntiva della manifestazione “Mario Monicelli e Rap – 100 anni di cinema” che s’inaugura con la proiezione al Metropolitan de “La grande guerra”, primo titolo dell’annessa rassegna cinematografica gratuita curata da Giuseppe Colella.
Si tratta, in dettaglio, di un evento organizzato dall’associazione culturale Hde, di cui l’architetto Francesca di Transo è strenua animatrice, promosso dall’Assessorato alla cultura del Comune di Napoli, sostenuto dall’Istituto Banco di Napoli – Fondazione e realizzato in collaborazione con la Film Commission della Regione Campania, la Fondazione Premio Napoli e il Napoli Film Festival.
La corposa anteprima nazionale si collega al centenario della nascita di Monicelli per volontà della compagna del regista Chiara Rapaccini, ispiratrice della suggestiva esposizione di ottanta fotografie inedite dei set monicelliani messe a stretto contatto con diciassette opere originali della stessa celebre e apprezzata illustratrice che rielaborano in acrilico ulteriore e prezioso materiale in bianco e nero recuperato (talvolta in maniera rocambolesca) dall’archivio personale del regista. Dopo la full immersion napoletana –giustificata anche dall’empatia che un uomo non incline alle oleografie e agli entusiasmi folcloristici come Monicelli nutriva per la nostra città- queste ultime creazioni si dispiegheranno in grandi arazzi che orneranno a settembre il Casinò di Venezia in occasione della Mostra del cinema.
Dunque una proposta eccezionale, nonché del tutto originale sul piano linguistico, per non ritrovarsi, come accade spesso in analoghe iniziative, a imbalsamare con il cipiglio specialistico le pose, le espressioni, i fotogrammi dei cult-movie –da “L’armata Brancaleone” a “Amici miei”- e dei divi –da Gassman a Mastroianni- testimonial naturali della contrastata eppure indomita vitalità del cinema italiano dal dopoguerra a oggi.
Grazie al cortocircuito fotografia-arte-cinema il pubblico non solo cinefilo riuscirà a orientarsi d’ora in poi più agevolmente nella mappa dei temi, le interpretazioni e le drammaturgie che aggregano l’eredità, anche questa non inibita ai non addetti, di uno degli autori a lungo confinati nell’ambiguo ghetto della commedia all’italiana.
Al visitatore cui spetterà soprattutto l’incontro-scontro con le proprie emozioni si può solo suggerire che sono essenzialmente due le direttrici che attraversano questa svariante filmografia: la prima rispecchia la formazione e la maturazione di un “maestro per caso” che concorre al superamento e non certo al tradimento dell’apoteosi neorealista; la seconda seleziona non solo a proprio vantaggio l’irresistibile compagnia dei “mostri” con cui il feeling si rivela intenso e foriero di affondi irrisori e spregiudicati sulla tumultuosa evoluzione del costume nazionale.
Un esempio di questo lavorio costante, estraneo all’occasionale successo o alla singola qualità dei film, è suggerito dal rapporto istituito col complice Gassman: dal pionieristico “I soliti ignoti”, in cui strappa il futuro mattatore dal suo aulico piedistallo e lo piega alle storpiature burlesche, sino al dittico di Brancaleone, in cui lo sgangherato cavaliere, il sublime cialtrone diventa l’inimitabile intermediario di quel mix di gusto anarchico e amore per i perdenti, vitalismo irriducibile e riso come esorcistico antidoto all’istinto di morte che il regista non vorrà mai trascrivere in bella calligrafia edificante.