di Valerio Caprara
Il film di Maria sole Tognazzi interpretato da Margherita Buy e Sabrina Ferilli ( ci sono anche Domenico Diele e Enno Fantastichini) ha la necessità di sottolineare a ogni costo la normalissima normalità, per così dire, di una love story fra due donne: ma se tutto deve risultare stanco, flebile e scontato, perché mai ci si dovrebbe appassionare alle increspature del placido fiume di un borghesissimo tran tran quotidiano?
Non è certo un buon segnale che si parli a destra e a manca di “Io e lei” soprattutto a proposito del tema (prego aggiungere per il buon peso l’aggettivo scottante): il lesbo-ménage di due signore benestanti e le contingenze disfunzionali della relativa vita di coppia. La Tognazzi, regista e cosceneggiatrice insieme alla Marciano e Cotroneo, punta forte sull’incontro/scontro tra due attrici che del resto sembrano nate per i ruoli, l’irrequieta, sempre un po’ spaesata e morettiana fino al midollo Buy (Federica) e la vigorosa, spontanea e ulteriormente maturata -tanto da eccellere anche nei sottotoni- Ferilli (Marina): succederà soltanto, peraltro, che la prima, orientata a mantenere una certa riservatezza e non ancora in grado d’accettare sino in fondo la propria natura, rincontri un uomo da cui si sentiva attratta mettendo in crisi le basi sorprendentemente fragili della pur quinquennale relazione.
Non è difficile apprezzare, come premesso, le prove della Buy e la Ferilli, ma dal punto di vista della costruzione drammaturgica, delle soluzioni visive, dei ritmi emotivi e della vivacità narrativa ci ritroviamo in mano niente di più e qualcosina in meno di una commedia alla Nora Ephron trapiantata in habitat romanocentrico; penalizzata, però, proprio dall’impellente necessità di sottolineare a ogni costo la normalissima normalità, per così dire, di una love story che si presume percepita come sconveniente dalle greggi retrograde fuori e dentro la sala. Con il risultato d’inceppare il film stesso: se tutto, anche in considerazione dell’età dei personaggi conviventi, deve risultare stanco, flebile e scontato, perché mai ci si dovrebbe appassionare alle increspature del placido fiume di un borghesissimo tran tran quotidiano?
Meglio non chiedersi, in effetti, come sarebbe stato promozionato l’identico canovaccio filmico se fosse stato incentrato su un maschio alfa (magari meno idiota di quelli chiamati in causa da Tognazzi & company) fedifrago che rientra nel domicilio coniugale al termine della scappatella con la troietta di turno. L’esilità dell’operazione, magari più elegante dei tanti melodrammi alla Mazzucco o Mazzantini strappati dal cinema italiano al borsino letterario midcult, non ha niente a che vedere, per intenderci, col sofferto autosarcasmo o lo stentoreo militantismo dell’affine filone americano e l’idea balzana di ricavare uno spazietto dove rendere omaggio con la macchietta del cameriere filippino al “Vizietto” di papà Ugo sembra rasentare l’autogol psicanalitico e cinefilo.