di Valerio Caprara
L’ultimo melò di Gabriele Muccino “Padri e figlie” (con Russel Crowne, Amanda Seyfried, Diane Kruger e Jane Fonda) è una storia di sentimentalismi ricattatori, battute stracult e personaggi murati nel proprio stereotipo che sarebbero sembrati smodati persino al nostrano Matarazzo dei duetti anni ’50 Sanson-Nazzari.
Il melò secondo Muccino s’arricchisce con “Padri e figlie” di un altro titolo imbottito di sentimentalismi ricattatori, battute stracult e personaggi murati nel proprio stereotipo che sarebbero sembrati smodati persino al nostrano Matarazzo dei duetti anni ’50 Sanson-Nazzari.
In quest’ultima prova da sforzo i piani temporali diversi e intersecati servono a spiegare per filo e per segno il disagio di Katie, da bambina prima orfana di madre e poi danneggiata dall’affidamento al problematico padre scrittore che tra un ricovero ospedaliero e la cronica mancanza di denari (il suo ultimo romanzo “Tulipani amari” è stato –come ti sbagli- un fiasco colossale) insisteva a vezzeggiarla col nomignolo “patatina”. Impossibilitata a credere nell’amore con la a maiuscola, la coprotagonista cresciuta interpretata dalla Seyfried si sbraca nel sesso occasionale, ma i ricordi dolorosi la perseguitano specialmente se innescati dall’opportuna canzone strappalacrime (non manca l’accenno di un inedito brano del Jovanotti newyorkese).
Muccino “gira bene”? Sì, ci sono le corse a perdifiato a piedi o in bicicletta, gli svolazzi con la macchina a spalla e le volute dei piani sequenza, Crowe che recita la classica scena madre dell’esaurito nonché i 22 milioni di dollari del budget che sono pochi per lo standard dei detestati mercanti amerikani, ma gli hanno intanto permesso la lussuosa patina formale. Tutti ottimi motivi per sposare (a buon rendere, va da sé) le battute congegnate a mo’ d’insulto dallo script di Brad Desch contro le recensioni e i critici ostili.