di Valerio Caprara
Bogdanovich con “Tutto può accadere a Broadway” ( interpretato da Imogen Pots, Owen Wilson e Jennifer Aniston) non si limita a praticare la profondità dissimulata tipica del migliore Woody Allen, ma sembra davvero credere che in fondo all’animo dello spettatore tutto possa accadere come sullo schermo luminoso di una buia sala cinematografica…
Aleggia un dubbio esortando il pubblico a non perdere “Tutto può accadere a Broadway” e cioè quello che la passione cinefila possa avere portato al diapason il criterio di giudizio. Però anche riconoscendo che il doppiaggio toglie un pizzico di brio all’originale presentato l’anno scorso alla Mostra di Venezia col titolo “She’s Funny That Way”, ribadiamo la ferma convinzione che il ritorno alla ‘screwball comedy’ di Bogdanovich non si accontenti di un pigro ricalco dei capolavori di Lubitsch (“Fra le tue braccia” funziona peraltro come epigrafe), Wilder o Preston Sturges, bensì proponga un mix di ritmo, battute e personaggi dettati dal rinnovato piacere di sapere sceneggiare e mettere in scena una commedia newyorkese come il dio del cinema comanda.
Una sensazione che dovrebbe farsi strada non solo tra i nostalgici dell’autore di “… e tutti risero” e “Ma papà ti manda sola?”, tanto è vero che il vispo settantaseienne è riuscito a girare il film –scritto ben 25 anni orsono- grazie alla tutela d’amici odierni come Wes Anderson e Quentin Tarantino nonché di giovani interpreti-complici come Wilson e Aniston.
Dunque eccoci immersi nel gioco del caso, delle coincidenze asincrone e delle sliding doors dei sentimenti nell’occasione capeggiato, in barba ai moralismi, dall’Escort Isabella che s’imbatte una sera in una camera del Barclay in un cliente particolare, il playboy col vezzo del pigmalione che si fa chiamare Derek. Ricevuti un mucchietto di dollari in cambio della promessa di abbandonare il mestiere e dedicarsi al genuino amore per la recitazione, la bionda pluri-concupita interpretata dalla graziosa e brava Poots (il riferimento alla mitica Streisand è azzardato ma nient’affatto sacrilego) si reca a sostenere un provino a Broadway scatenando una girandola debitamente illogica di quiproquo e siparietti che non hanno alcun bisogno di ricorrere alla zampata trash o al certificato del politicamente o sociologicamente corretto.
Contribuiscono, infatti, a ingarbugliare la matassa delle reazioni a catena punteggiate da gag farsesche eppure di classe una moglie cornificata e cornificante, una psicanalista gelosa e scatenata, un detective ingaggiato da un vetusto magistrato col debole per le giovincelle e altri ancora che passano freneticamente da un hotel a un ristorante a un taxi in una New York assimilata ancora una volta (sembrando però la prima) alla Shangri-la della pochade.
Il tocco di Bogdanovich, infine, non si limita a praticare la profondità dissimulata tipica del migliore Woody Allen, ma sembra davvero credere con ingenuità –questa sì- vintage che in fondo all’animo dello spettatore tutto possa accadere come sullo schermo luminoso di una buia sala cinematografica.