Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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Rosso Julieta

di Valerio Caprara

Non si può pretendere che tutti riconoscano nel razionale pessimismo di Almodovar la fedeltà alla personale galleria cinefila in cui spiccano Il romanzo di Mildred, Lo specchio della vita o Rebecca – La prima moglie, però è auspicabile che si colgano e apprezzino le sfumature, i non-detti, le folate del dolore, le maledizioni e i complessi di colpa in grado di trasformare gli automatismi da feuilleton in materia cinematografica allo stato puro

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Si è cominciato con le passerelle divistiche, proseguito con i puzzle da intellettoclub parigino e finito acclamando un film-comizio del vecchio Ken il rosso.

Come poteva spuntarla a Cannes un film sommesso, sobrio, crepuscolare come Julieta del sessantaseienne Pedro Almodovar intento a ripensare se stesso?

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Temerario nel mostrarsi distaccato dalla vigoria ritmica e la provocazione sgargiante che hanno a lungo arricchito la sua fama e il suo palmarès, il regista manchego vi ha, infatti, trasposto tre racconti di Alice Munro distillandone un mix che a qualche spettatore (ancorché estraneo alle capriole della Croisette) sembrerà rigido e algido, ma a noi pare invece essenziale e classico.

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A cominciare dalla stoffa rosso fuoco che nell’incipit, in accordo con le malinconiche musiche di Alberto Iglesias, funziona da richiamo iconico ai simbolismi del sesso, il sangue e la passione da sempre vettori del melodramma, ma subito dopo si rivela un dettaglio di stoffa del vestito della protagonista, la fascinosa ed elegante cinquantenne Julieta in procinto di lasciare Madrid per un buen retiro portoghese insieme al compagno.

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Succede, però, che l’incontro casuale con l’amica d’infanzia della figlia Antìa innesti lo sviluppo del film sul prolungato flash-back di un passato che la devasta implacabilmente: prima la precoce morte del marito e dopo qualche anno di stordimento, la fuga della figlia adolescente della quale da venticinque anni non ha più notizie.

Non si può pretendere che tutti riconoscano nel razionale pessimismo del regista la fedeltà alla personale galleria cinefila in cui spiccano Il romanzo di Mildred, Lo specchio della vita o Rebecca – La prima moglie, però è auspicabile che si colgano e apprezzino le sfumature, i non-detti, le folate del dolore, le maledizioni e i complessi di colpa in grado di trasformare gli automatismi da feuilleton in materia cinematografica allo stato puro.

Il risultato, secondo noi, entra nella prima fila dei ritratti femminili del regista, in particolare per il (sia pure non inedito) riferimento ai rapporti madre-figlia forieri di rivalità, gelosia, risentimenti, desiderio d’identificazione e gesti di brutale emancipazione.

Daniel Grao y Adriana Ugarte en Julieta de Pedro Almodóvar. © El Deseo

Un’altra caratteristica del film che lo rende importante, magari non nell’immediato bensì a mano a mano che si sedimenta nella memoria, è la prestazione delle due attrici, la Suarez e la Ugarte, chiamate ad interpretare Julieta in due momenti cruciali della sua esistenza: la seduttività, la fragilità, il narcisismo di cui sono portatrici non sono incrementati dal ricorso alle scene madri proprio perché la loro classe riesce a racchiuderle nella preziosa misura delle espressioni, le movenze e gli scambi dialogici.

Protagonista importante, nello stesso senso stilistico, è anche la fotografia di Larrieu pronta a tradurre il sentito e tormentoso “spaesamento” di Almodovar  nel gioco inesausto, sottile, prezioso dei colori.

 

 

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