Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

Gene Wilder in Willy Wonka

Il Gene del sorriso

 di Valerio Caprara

 Gene Wilder, figlio di un immigrato russo, studia recitazione prima al college e poi all’università dello Iowa, ma non si accontenta e va a perfezionarsi in Inghilterra al Bristol Old Vic per approdare infine a Broadway dove sembra avviato alla carriera d’interprete drammatico. Ma…

Gene Wilder

Gene Wilder

L’esperimento più ardito non è riuscito al dottor Frederick Frankenstein e al suo sublime/deficiente alter ego schermico (si dice… Frankenstìn). Gene Wilder, che si chiamava in realtà Jerry Silberman ed era nato a Milwaukee, Wisconsin nel 19 35, l’interprete principale di quel capolavoro assoluto della comicità intitolato Frankenstein Junior (Young Frankenstein), è infatti scomparso lasciando un grande vuoto nell’empireo dell’ultimo star system hollywoodiano.

Il cult del ’74 è per gli archivi un film di Mel Brooks, ma di Wilder era stata l’idea originaria e anche la prima stesura della sceneggiatura: da bambino, in effetti, Gene non s’era perso, rimanendone letteralmente terrorizzato, nessuna versione cinematografica del mito letterario, a partire da quella originale, proseguendo con La sposa di Frankenstein, Il figlio di Frankenstein e addirittura Il fantasma di Frankenstein uscito nel ’42.

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Valerio Caprara

La scelta di fare dirigere il film a Mel Brooks fu naturalmente felice, anche perché quest’ultimo aveva già vinto un Oscar per la sceneggiatura grazie a Per favore, non toccate le vecchiette nel 1968: i due non immaginavano, però, che lo spunto farsesco si sarebbe trasformato in un sempreverde mondiale grazie a un tocco particolare che solo due autentici maestri dell’umorismo avrebbero saputo fare sprigionare.

Una trama geniale, un cast eccezionale, una colonna sonora perfetta: Frankenstein Junior, soprattutto, è molto di più della parodia di un classico ed è uno dei pochi adattamento dell’opera di Mary Shelley che riesce a proporre una lettura diversa della trama, chiarendo tra l’altro una volta per tutte che Frankenstein non è il nome della Creatura, bensì quello dell’ineffabile scienziato che l’ha generata apportando non pochi disastri a se stesso e all’umanità intera.

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Wilder, figlio di un immigrato russo, studia recitazione prima al college e poi all’università dello Iowa, ma non si accontenta e va a perfezionarsi in Inghilterra al Bristol Old Vic per approdare infine a Broadway dove sembra avviato alla carriera d’interprete drammatico.

Per un caso del destino riservato agli artisti, però, mentre sta provando Madre Coraggio in coppia con Anne Bancroft, il marito di quest’ultima, proprio Brooks, lo scrittura per il succitato Per favore non toccate le vecchiette (1967), una sgangherata quanto efficace satira del microcosmo teatrale spesso reboante e vanaglorioso.

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Prim’ancora che la critica lo noti in quel cast prestigioso (comprendente lo straripante e impegnato Zero Mostel), riporta un lusinghiero successo personale con la caratterizzazione dell’impresentabile e fifone impresario di pompe funebri in Gangster Story di Arthur Penn, uno dei capolavori del nuovo cinema americano anticonformista.

E’ questo lo snodo di carriera che l’induce a perfezionare via via nel tempo, senza peraltro mai abbandonarsi al volgare cliché, l’andatura e la presenza del personaggio in fondo romantico, ma risucchiato quasi suo malgrado nel grottesco dalle espressioni attonite, surreali, passive debitrici della maschera ebraica dello sciocco sapiente, l’uomo che sragiona secondo una logica ferrea ma insondabile.

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Tecnicamente abilissimo nel mantenersi uguale nella diversità, Wilder tramanda prestazioni diventate familiari non solo ai cinéfili in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso… (’72) di Woody Allen, Mezzogiorno e mezzo di fuoco (’74) dell’inseparabile Brooks, Il gioco del giovedì (’74), Scusi dov’è il West? (’79) del grande Aldrich in libera uscita dai film western e d’azione, o Hanky Panky fuga per due (’82) di un Sidney Poitier fuori standard.

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Certo, quando dirige un film oltre a interpretarlo, riesce a dare al gusto nonsensico e al paradosso cosmico una profondità narrativa se non migliore, particolarmente articolata: basta ripensare a film magari non straordinari, ma che lo spettatore non rimpiangerà mai d’aver visto come Il fratello più furbo di Sherlock Holmes, Il più grande amatore del mondo e La signora in rosso (1984) dove le sue battute gareggiano in glamour con la conturbante avvenenza delle pose maliziose della rossa Kelly LeBrok cullata dalla canzone oscarizzata di Stevie Wonder I Just Called to Say I Love You.

 

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