di Valerio Caprara
Il documentario sui generis di Giovanni Piperno e Agostino Ferrente sta meritatamente godendo di una seconda, terza e forse quarta “vita”. Il ritratto di quattro personaggi, quattro coinvolgenti storie napoletane.
Non c’interessano di solito le recensioni a scoppio ritardato, ma nel caso di “Le cose belle” è opportuna un’eccezione perché il documentario sui generis di Giovanni Piperno e Agostino Ferrente sta meritatamente godendo di una seconda, terza e forse quarta “vita”.
Al di là della rinnovata vitalità manifestata da un genere alquanto negletto dal pubblico nostrano –magari più alla ribalta dei festival che nella battaglia quotidiana del box office-, si tratta di un ritratto estremamente coinvolgente di quattro personaggi della Napoli popolare non solo intervistati a distanza di tempo, bensì modificati dall’inesorabile trascorrere dello stesso come se si trattasse di un memoir d’autore.
La prima considerazione da fare diventa, dunque, quella che l’opera prodotta, protetta e propugnata dalla Parallelo 41 dell’indomita Antonella Di Nocera può tranquillamente essere definita un film, più “film” magari di molti altri molto promozionati. Nel 1999, infatti, quattro ragazzini scelti dai registi per esprimere, insieme ai sentimenti e le preferenze del presente, un’idea di come immaginassero il proprio futuro restarono, per così dire, confinati nel mediometraggio per Rai Tre “Intervista a mia madre”; nel 2011 gli stessi Adele Serra, Enzo Della Volpe, Fabio Rippa e Silvana Sorbetti vengono “riscoperti” dalla macchina da presa che, senza brutalità o sensazionalismi procede a registrare la distanza inevitabilmente creatasi tra le aspettative adolescenziali e la rispettiva evoluzione esistenziale.
La danza in versione alquanto equivoca, i classici sogni da modella e calciatore o la collaborazione con il papà chitarrista da posteggia costituiscono un punto di partenza volutamente medio, periferico, indistinto, lontano dagli estremi classici della più o meno buona borghesia e del degrado più o meno camorristico: il ritratto iniziale intende strategicamente anteporre al pur preciso identikit sociologico il senso misterioso e un po’ folle che solo quell’acerba età possiede. Il salto nella condizione attuale non risulta in questo modo sterilmente recriminatorio o pietisticamente ricattatorio, proprio perché lo spettatore non può spartire con faciloneria indignata quanto è dovuto alle tuttora inarrestabili catastrofi cittadine da quanto è dovuto, invece, a quella subdola infezione procurata dall’incombere delle responsabilità, le problematiche e i conteggi dell’età adulta in quanto tale.
Le cose “belle”, insomma, non possono più arrivare per tutti quelli che –nonostante abbondanti dosi di autoironie e musiche ipernapoletane- si sono via via arresi all’appassimento determinato dall’abisso della quotidianità, dai deficit civili, da un destino impietosamente già segnato.
E alla fine, sensazione più unica che rara, non si sa se soccombere all’amarezza, maledire il folklorismo consolatorio, protestare contro le istituzioni deputate o ringraziare per il potere terapeutico conferito alle immagini dallo stile e l’occhio cinematografici di Ferrente e Piperno