di Valerio Caprara
“L’amore bugiardo- Gone Girl”, più un noir che un thriller, è un film di David Fincher con Ben Affleck, Rosamuna Pike, Neil P. Harris e Tyller Perry sulla forza autodistruttrice delle apparenze
Flash-back. Una nuvola di farina sprigionata per caso da una boulangerie di Manhattan turbina sulla coppia che si bacia per la prima volta… Lui ha sedotto Lei in tonalità disneyane, ma poi le immagini virano su uno spinto rapporto di sesso. E’ subito chiaro, insomma, come David Fincher intenda utilizzare lo scarto grottesco come registro narrativo di “L’amore bugiardo – Gone Girl”, un altro dei suoi film memorabili proprio grazie all’oscillazione perpetua che impedisce al punto di vista dello spettatore d’assuefarsi o stare comodo nel corso di 145 minuti tesi, ambigui e inquietanti.
Più un noir che un thriller, in effetti, ma anche una spietata disamina del barbaro vampirismo mediatico, in particolare statunitense; un ricalco hitchcockiano, però depistante; un rompicapo di volta in volta striato di humour parodico e acmi sanguinarie; una soap opera congelata e claustrofobica e, soprattutto, una ghignante metafora del matrimonio descritto come la più grande macchina di menzogna fisica e contenzione sociale congegnata dagli esseri umani.
“L’amore bugiardo” è un film sulla forza autodistruttrice delle apparenze, ma non esplorate da un ordinario versante etico, bensì chiamate a testimoniare sulla tanto più intima e segreta quanto più tormentosa divaricazione che riguarda noi tutti tra quello che siamo e quello che vogliamo sembrare di essere, come ci valutiamo e come vogliamo essere valutati, le scelte che facciamo liberamente e quelle che vogliamo ci identifichino assolutamente.
Insieme alle tortuose anse dell’intreccio, tratto con sfrondature da un bestseller di Gillian Flynn che si potrebbe senza complessi definire da stazione (come lo erano, del resto, la maggior parte di quelli trasposti nei cult-movie del genere), lavorano una fotografia ossessiva/desaturata e una musica neutra/elettronica che hanno lo scopo di rendere circolare e stratificato il rapporto tra i due antitetici protagonisti: la mattina del giorno del quinto anniversario di matrimonio, l’aitante e frustrato provinciale Nick (Affleck, forse nel ruolo più giusto della carriera) e la viziata scrittrice newyorkese Amy (Pike, bionda dal sex appeal indefinibile) sembrano affiatati e felici, anche se il regista di “Fight Club” e “The Social Network” ci ha velenosamente allertati sulle diverse estrazioni sociali. Nello squallido habitat di New Carthage, Missouri, il primo è consapevole che “il matrimonio è un lavoro duro”, mentre la seconda è entrata giocoforza nella parte di casalinga disperata; è a questo punto che un evento drammatico, imprevedibile e inspiegabile obbliga il racconto a scindersi in due speculari percorsi e, nell’alternanza di suspense tra le pagine di un diario e le indagini della polizia, a condurre l’opinione pubblica della finzione e quella pagante della platea sulle piste di versioni contrapposte degli stessi indizi, colpi di scena, diabolici piani, sciacallaggi, travisamenti e travestimenti.
Tanto è vero che sul film i recensori d’oltreoceano si sono già esibiti nel rimpallo delle contrapposte etichette di femminista e misogino. Tenendo conto, però, del vortice di prospettive tra vittima e carnefice è molto meglio assegnargli quella di misantropo a tutto campo capace di smascherare i suoi personaggi “eyes wide shut”, a occhi chiusi spalancati.