di Valerio Caprara
Ok, nella sequenza iniziale di “Mission: Impossible – Rogue Nation”, aggrappato per qualche interminabile minuto al portellone di un quadrimotore a turboelica in decollo, Cruise supera se stesso e può sognare d’essersi reincarnato in Connery.
Del resto il divo non ha aspettato di compiere gli attuali cinquantatré anni per dichiarare ai media e i fan l’intenzione di produrre e gestire in proprio una serie action-thriller di taglio e gusto retrò e l’implicita aspirazione a tramandarsi quale icona di un James Bond del 2000.
A dire il vero, in effetti, il quinto capitolo del blockbuster non smette per più di due ore d’offrirgli chance per la conquista dell’agognato status e il suo alter ego agente supersegreto Hunt salta, benché incatenato, dal palcoscenico al tetto dell’Opera di Vienna schivando i tiri di tre cecchini contrapposti, si tuffa da trentacinque metri in una gigantesca turbina acquatica e vi sommozza in apnea per circa sei minuti, piroetta meglio di Valentino Rossi nel clou di un inseguimento motociclistico mozzafiato a Marrakech e vince il duello finale contro il malefico para-terrorista di turno tra le impalcature e le voragini di un tenebroso labirinto londinese. Il tutto, giura l’interessato e divulgano gli uffici stampa, senza ricorrere alle controfigure.
Sul buon esito di quest’ardua scommessa tra il glamour e l’industriale deciderà ovviamente il pubblico mondiale, ma certo non mancano i retroscena e gli indizi per supportare il parere vuoi dei cinefili benevoli, vuoi di quelli ostili.
Innanzitutto Tom si sta impegnando con “Rogue Nation” in una battaglia personale meno limpida di quelle politiche a suo tempo combattute da Sean e cioè porre fine una volta per tutte alle manipolazioni subite da Scientology: neppure i film di successo interpretati nell’ultimo decennio, infatti, sono riusciti a diradare gli equivoci provocati da qualche inquietante intervista, una marea di gossip e un licenziamento dalla Paramount.
Che siano vere o meno le voci del suo ripudio della setta fatta bersaglio, tra l’altro, dal recente documentario “Going clear: la prigione della fede”, è chiaro che la proverbiale determinazione e l’impeccabile professionalità dell’attore si ritrovano oggi a fronteggiare qualcosa di più pericoloso del semplice trascorrere degli anni. E’ soprattutto la sua “anima”, insomma, che deve affrontare la voracità della macchina da presa come non ha mai dovuto fare Connery; però, in fondo, riguardo al corpo minuto, la bassa statura e l’espressione divenuta un po’ più stanca e tirata, si può dire che l’ex monello d’America (non importa se grazie alla chirurgia estetica) è invecchiato bene e non risulta ridicolo il continuo ricorso alle battute ironiche sempre sulla scia della sofisticata nonchalance del mito titolare.
C’è, però, un ultimo argomento terribilmente a suo sfavore ed è quello del carisma riconquistato con fatica che si blocca sulla soglia cruciale del sex appeal: nonostante la presenza di un’eroina inedita e affascinante come l’anglo-svedese Rebecca Ferguson (che nella finzione si chiama Ilsa, come la Bergman in “Casablanca”) il copione non ha congegnato per i due neppure l’attimo fuggente di un bacetto. Una situazione diversamente imbarazzante e più adatta a un Hulk che a uno 007.