di Valerio Caprara
Il moderato femminismo della Forbes (al suo esordio alla regia), ammantato di nostalgia per i giovanili entusiasmi peace & love, viene dispensato con una leggerezza che funziona da antidoto alla tentazione pedagogica. Il cinema americano per le storie incentrate sulle malattie mentali non ha sempre ha dato il meglio di sé. E “Teneramente folle” (interpretato da Mark Ruffalo, Zoe Saldana, Imogene Wolodarsky) di certo non si candida ad essere un film memorabile.
Riguardo alle storie incentrate sulle malattie mentali il cinema americano non sempre ha dato il meglio di sé. L’eccesso di sentimentalismo e retorica, infatti, tende a inficiare il plausibile intento di presentare come eversori sociali i personaggi affetti da disturbi psichici (con le dovute eccezioni, ovviamente, dal classico “Qualcuno volò sul nido del cuculo” ai recenti “Two Lovers” e “Il lato positivo”).
“Teneramente folle” (“Infinitely polar bear”), che segna l’esordio dietro la macchina da presa della sceneggiatrice nonché erede dell’omonimo colosso editoriale Maya Forbes, va a collocarsi un po’ a metà strada schivando i suddetti difetti, ma non candidandosi al ruolo di film memorabile. Esplicitamente vicino all’autobiografia della regista, il racconto inaugurato dall’incontro nel disinibito clima sessantottino tra Cam e la graziosa Maggie diventa drammatico alla fine degli anni Settanta, quando il felice matrimonio bostoniano, tra l’altro allietato da due sveglie e simpatiche figlie, deflagra a causa della pregressa e sottovalutata sindrome bipolare (l’”orso polare” del titolo originale ricalcato sulla scherzosa storpiatura usata in famiglia) che ha finito col rendere Cam incapace di sostenere la gestione e gli impegni di una vita normale.
Lo scatto anticonformista dell’amarcord è segnato dalla duplice decisione di Maggie d’andare a vivere e studiare a New York –che dovrebbe apparire più easy e libertaria dell’impettita Boston- per cercare d’ottenere un lavoro remunerativo e d’affidare, a dir poco temerariamente, la cura delle bambine al coniuge che entra e esce dai centri di riabilitazione, usa un’auto malmessa, ha la lacrima facile ed è perennemente in bolletta.
Grazie alle convinte incarnazioni di Ruffalo e Saldana lo stile e il tono della tragicommedia si mantengono su un livello di sufficienza, ancorché l’espediente dei finti filmini in Super 8 e l’insistenza sulla rapsodia di fatti e fatterelli simil soap che non disdegnano di strizzare l’occhio al lato buffo della convivenza padre-figlie non conferiscano al film una cifra davvero originale e incisiva.
Il fatto è che il moderato femminismo della Forbes, ammantato di nostalgia un po’ querula per i giovanili entusiasmi peace & love, viene dispensato con una leggerezza che funziona da antidoto alla tentazione pedagogica, il supporto infallibile della colonna sonora d’epoca e l’attenzione del punto di vista da cui si osservano e colgono a beneficio di una platea desiderosa di scorrevolezza i bizzarri, imbarazzanti eppure premurosi e amorevoli comportamenti del protagonista.
Vorrei segnalare, sul tema, il film
‘Le pagine della nostra vita’, di Nick Cassavetes, meraviglioso film per il quale il grande James Garner è andato molto vicino all’Oscar.