di Valerio Caprara
Il recente revival di libri, articoli e interviste sui presunti misteri sulla tragica morte di Pier Paolo Pasolini sembra in un certo senso troncato di colpo dalla scomparsa di uno dei suoi ispiratori, amici e consulenti. Franco Citti, malato da tempo e spentosi a ottant’anni nella sua casa non distante dalla darsena di Fiumicino, è stato un attore di lungo corso, tanto appassionato del mestiere da non volere quasi mai estendere come il fratello Sergio (morto nel 2005) la propria esperienza nel campo della sceneggiatura e la regia
Nato nella stessa ex-borgata portuale il 23 aprile del 1935 (rievocata a tinte vivide nell’autobiografia “Vita di un ragazzo di vita” scritta nel ’92 in collaborazione con Claudio Valentini), s’arrangia come imbianchino saltuario quando viene scelto dal neoregista come protagonista di “Accattone” (1961): “Dovendo rinunciare a Interlenghi sono stato costretto a scegliere un accattone vero, a cui mi sono però immediatamente affezionato, come uno scrittore si affeziona ad una sua invenzione stilistica”.
La sua immedesimazione a un tempo mimetica e sublimata nel personaggio del cinico e brutale sottoproletario che sfrutta le prostitute restituisce ancora oggi allo spettatore tutta la primitività e sofferenza del contesto, contribuendo alla tensione etica e formale di quello che resta secondo noi il migliore tra i film, non di rado sfioriti del geniale e antagonistico intellettuale.
Insieme a Ninetto Davoli, che è stato tra i primi a divulgare ai media la triste notizia, diventa subito l’icona privilegiata di una filmografia aspra, violenta, accesa da bagliori di mistica protesta contro la deriva societaria: da “Mamma Roma” a “Porcile” fino alla smagliante Trilogia della vita riesce a costruirsi una maschera drammatica, per così dire, ancestrale tanto da potere reggere la sfida di un ruolo come quello cruciale di “Edipo re” (1967).La sua naturalezza davanti all’occhio della macchina da presa corroborata dalla spontanea arguzia sottoproletaria della parlata romanesca gli varranno, peraltro, numerosissimi ingaggi anche da parte di registi, come Carné (“Parigi proibita”), Zurlini (“Seduto alla sua destra”), Giraldi (“Colpita da improvviso benessere”), addirittura Fellini (“Roma”), Coppola (“Il padrino” parte I e III), Bertolucci (“La luna”), Maselli (“Il segreto”) decisamente distanti dall’imprinting originario.
Nelle sue esternazioni la figura di Pasolini, che pure è stato il pigmalione delle storie segnate dal suo volto scolpito dagli zigomi e dall’andatura da cane randagio, non cede mai a tentazioni pietistiche e neppure ad agiografie melense: “Non sapevo che quell’uomo timido ed educato mi avrebbe e ci avrebbe, a me e a mio fratello, cambiato l’esistenza”.
Non esistono per lui parti trascurabili, bensì solo sintetiche per un carisma che via via si perfeziona nell’incessante incontro-scontro con la superiore visionarietà cinematografica di Sergio: in “Ostia”, “Storie scellerate”, “Casotto”, “Il minestrone”, “I magi randagi” e in tv nella serie “Sogni e bisogni” o “I promessi sposi” di Nocita e “Yerma” di Ferreri non si limita mai a fungere da materiale plastico per una più o meno ammiccante inquadratura, bensì dà sempre l’impressione di cercare l’emersione dall’habitat disperato che gli è stato dato in sorte.
Nel 1988 esordisce sorprendentemente nella regia dirigendo con la collaborazione fraterna (ufficializzata dai credit) se stesso e Fiorello in “Cartoni animati”, una parabola sui senzatetto in cui i zigzag stilistici riescono a preservare l’inusitata freschezza delle antiche e ormai perdute narrazioni orali. Saltuariamente presente in teatro (“I giganti della montagna” e “Tamerlano”), può vantare una grande prestazione nella parte di San Giovanni della mitica “Salomé” di Carmelo Bene e preziose testimonianze senza peli sulla lingua nei documentari “A futura memoria” (1985) di Barnabò Micheli” e “P.P.P. e la ragione di un sogno (2001) della Betti.