di Valerio Caprara
Paolo Virzì gestisce da par suo un approccio compassionevole e non pietistico, che s’insinua sotto la pelle delle situazioni, sorvola sulla rieducazione ideologica dello spettatore, non edulcora il mondo, ma neppure gli spara addosso
Pochissimi cineasti come Paolo Virzì riescono a suscitare l’empatia col pubblico. Un plusvalore autentico, che in fondo è il coefficiente dell’equazione-cinema e può persino prescindere dai disparati meccanismi grazie ai quali il film l’incassa. Non a caso al termine di La pazza gioia è la generosità la prima qualità che salta agli occhi: sostantivo va da sé da intendersi non in senso paternalistico-buonista, bensì in quello di spaziosità narrativa, iconica, creativa.
La sua galleria di donne tutte senso e sensibilità si arricchisce, infatti, di Beatrice e Donatella che, ricoverate in una comunità terapeutica, dimostreranno in capo a un pugno di buffe (dis)avventure come non siano “matte”, bensì persone delicate e preziose, ferite a vario titolo da partner, società o famiglia.
Un mini-romanzo di riacclimatazione alla libertà su cui torreggiano la Ramazzotti più grintosa e scombinata che mai, ma soprattutto la Bruni Tedeschi eccezionale nell’incarnazione di svalvolata sexy e radical chic autolesionista, sempre trascinante benché sospesa appena un millimetro al di sopra della caricatura.
La miscela di lacrime e risate, per fortuna, proprio per questo non si lascia sopraffare dalla sceneggiatura che, al contrario, non ha predisposto al meglio l’interscambio -che al regista viene invece naturale- tra il (si scusi la brutalità) “messaggio” e la vividezza e la levità degli sguardi, le espressioni, i movimenti e il modo di scambiarsi le emozioni.
Perché l’assioma che i veri folli sono i normali e nella vita tutti hanno le loro ragioni ormai lo sanno ripetere a memoria a legioni, non solo i cinefili con l’immancabile listino di Thelma e Louise e nidi del cuculo; mentre Virzì gestisce da par suo un approccio compassionevole e non pietistico, che s’insinua sotto la pelle delle situazioni, sorvola sulla rieducazione ideologica dello spettatore, non edulcora il mondo, ma neppure gli spara addosso nascondendosi dietro Sapore di sale diffuso a tutto schermo nella sala buia. E’ questo il cineasta da amare perché anche stavolta, ancorché a intermittenza, ha voluto e saputo specchiarsi nelle nostre imperfezioni.
Due donne infinitamente distanti per educazione, personalità maturate con un vissuto pregresso
particolare e molto triste per almeno una di loro e per appartenenza a due classi sociali agli antipodi si ritrovano incredibilmente simili quando raggiungono la consapevolezza del dolore che può riservare la vita a chiunque.
E a suscitare questa consapevolezza con il racconto della propria vita è quella che tra le due appare la più debole. Si instaura così tra loro un legame affettivo e, dopo tante avventure e disavventure, sembrano aver raggiunto un certo equilibrio.