Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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Gomorra ha fatto la storia

di Valerio Caprara

Gomorra è un prodotto che lascerà il segno nella storia finora striminzita della serialità televisiva nazionale. I 24 episodi non sono “tecnicamente perfetti”  specie se paragonati ai migliori delle serie americane, ma molto buoni sì e non in base a uno sguardo generico e condiscendente, bensì a strategie di messinscena ben precise, talvolta del tutto innovative e talvolta abilmente citazioniste

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Tralasciando lo scarso appeal dei critici, è doveroso assicurare che gli storici e gli studiosi di cinema e comunicazioni di massa sono felici per l’attenzione rivolta da tanti opinionisti anche alla seconda stagione di Gomorra.

Al massimo si sono sentiti un po’ a disagio quando sono stati tirati in ballo espressioni impegnative come “opera d’arte”, “prodotti commerciali”, “lede l’immagine di Napoli” o “immagini spettacolari e perciò afferenti alla nostra sfera più bassa”, ma solo perché prendendo alla lettera tali criteri di giudizio si sarebbero dovuti porre il problema di riscrivere daccapo trattati, enciclopedie e dizionari.

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Cercando un riscontro ai dati trionfali che per qualcuno costituiscono, invece, le peggiori prove a carico di Gomorra 1 e 2 – i numeri incredibili dell’audience, la vendita in tutto il mondo dei diritti, una fama persino più forte del bestseller di Saviano da cui sono originate – ci si è peraltro imbattuti in un curioso distinguo che servirebbe per mazzolare meglio le serie andate in onda sui canali Sky: “benché tecnicamente perfette”.

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Un pugno di mosche in mano a chi come noi sostiene che ci troviamo di fronte a un prodotto (absit iniuria…) che lascerà il segno nella storia finora striminzita della serialità televisiva nazionale. In concreto i 24 episodi non sono “tecnicamente perfetti” (perché non hanno avuto tutti la medesima resa e ottenuto lo stesso impatto drammaturgico), specie se paragonati ai migliori delle serie americane, ma molto buoni sì e non in base a uno sguardo generico e condiscendente, bensì a strategie di messinscena ben precise, talvolta del tutto innovative e talvolta abilmente citazioniste.

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Il lavoro più arduo è toccato agli sceneggiatori che hanno molto lavorato sui due meccanismi fondamentali, quello delle linee narrative e quello del tempo in cui si dispongono la miriade di avvenimenti.

I procedimenti di scrittura, come ha notato lo sceneggiatore di True Detective Pizzolatto, si sono di conseguenza conquistati uno statuto autonomo, lo stesso che ha potuto regalare ai registi la chance (mai sprecata nella prima serie e nella seconda dissipata solo a tratti) d’interrompere e riprendere la suspense quando e come lo ritenevano opportuno.

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Poi c’è stata l’area di peculiare competenza di quest’ultimi che mano a mano ha visto affiancarsi al leader Sollima il taglio a tutta grinta di Cupellini e Giovannesi e soprattutto la crescita della Comencini, autrice degli episodi mozzafiato 9 e 10 che tramandano il picco della seconda serie. Sia pure nell’ovvia alternanza dei valori e delle riuscite, insomma, il metodo comune d’inserire in ogni inquadratura e ogni sequenza un particolare significativo e quindi la reinterpretazione di un universo criminale ha fatto sì che, al di là delle polemiche sull’effetto socialmente rilevante del racconto, le sensazioni di realtà s’integrassero in quelle del profilmico e viceversa.

Le locations, così, non sono state scelte per farle galleggiare nel limbo documentaristico; Scampia, come Napoli, Roma, Trieste o l’Honduras partecipano alle contorsioni dell’azione senza perdere l’identità, ma nello stesso tempo trascendendola: un contesto feroce e autodistruttivo in cui persino le Vele evadono dalla sociologia spicciola e diventano l‘arena che racchiude la lotta tra la sopraffazione e la sopravvivenza che deflagra ogni notte, ogni giorno in tutti i non-luoghi che assomigliano alla Los Angeles di Blade Runner, alla Gotham City di Nolan o alla Sin City di Rodriguez, Tarantino e Miller.

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Se c’è poi un aspetto che ha fidelizzato un pubblico sterminato, quello è legato ai personaggi e ai relativi interpreti, una galleria sospesa com’è la regola dei noir, gli horror, i polizieschi più estremi e più lodati di letteratura, teatro e cinema tra attrazione e repulsione e quindi pericolosamente aperta al rischio della reazione individuale e collettiva.

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Per questo snodo la soluzione scelta da Gomorra appare pressoché geniale: la perfetta fusione degli attori a grande vocazione professionale –da Cerlino a D’Amore, da Esposito alla Donadio fino a Palvetti e alla Dell’Anna- con quelli, in verità formidabili, presi dalla vita vera. Infine è sullo stile che si gioca la partita-clou a cui s’uniformano e coordinano le qualità assolute di riprese, fotografia, scenografia, musiche e montaggio.

L’ispirazione è non a caso ampia, parte addirittura dal cinema civile di Rosi, sfiora i poliziotteschi con Maurizio Merli, ricorda senza snobismi i film di Ciro Ippolito e quelli con Mauro e Merola, passa per le alchimie sarcastiche dei Capuano e Corsicato e s’immerge nelle odissee gangsteristiche del Michael Mann di Heat e Collateral.

 

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