Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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Se Harry Potter diventa Tarzan

di Valerio Caprara

Non resterà traccia di “The Legend of Tarzan”, un kolossal costato 180 milioni di dollari alla Warner e diretto dall’inglese David Yates reduce da Harry Potter, una maratona di strabilianti effetti digitali purtroppo priva di scatti di vera emozione

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Cinema americano, aggiornamento sullo stato delle cose. Forse il guaio principale sta nel fatto che i film di serie B degli anni tra il dopoguerra e i Sessanta si siano trasformati nei nuovi blockbuster, col risultato di perdere gli antichi pregi acquisendo tutti i difetti dell’evento da multiplex.

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Il caso di “The Legend of Tarzan” è emblematico in questo senso… Il personaggio creato dallo scrittore americano Edgar Rice Burroughs ha goduto di un immensa fortuna in tutti campi dell’intrattenimento, ma sicuramente è quello più amato dagli sceneggiatori, i registi e gli spettatori a cominciare dall’epoca del muto: peccato, però, che nello straripante elenco delle versioni replicate, adattate, ibridate, aggiornate, parodiate per il grande e piccolo schermo (comprese quella dell’84 con Christopher Lambert e quella disneyana del ‘99), non resterà un gran traccia di questo kolossal costato 180 milioni di dollari alla Warner e diretto dall’inglese David Yates reduce da Harry Potter, una maratona di strabilianti effetti digitali purtroppo priva di scatti di vera emozione.

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L’unica idea passabile del progetto sta nell’amputazione del canonico prologo con la formazione del cucciolo d’uomo gestita dalle grandi scimmie e dalle leggi della giungla e nel passare subito al “dopo”, con Tarzan già diventato Lord Greystoke comodamente insediato in Inghilterra con la consorte. La sua vita viene crudelmente stravolta quando viene invitato a tornare dove è cresciuto, nel Congo dove non immagina che vogliano strumentalizzarlo come pedina di un’infame complotto.

Se pure si fosse in animo di non infierire sulla scelta di un iperpalestrato inespressivo come il nordico Skarsgard nel ruolo del protagonista, si capisce ben presto come tutto intenda apparire e appaia gonfiato, pletorico, plateale e, quindi, alla fine paradossalmente immoto nella rilettura in stile pop-chic dell’archetipo darwiniano della lotta tra natura e cultura.

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Il carico delle prestazioni collaterali di Samuel Jackson, Christoph Waltz (ormai arcinemico a comando), Djouimon Houns e della ex perversa ma sempre radiosa Margot Robbie aumentano la sensazione di sazietà, di overdose grandguignolesca e di meccanica premeditazione, mentre anche le avventure più pericolose, le zuffe più cruente, i colpi di scena più rocamboleschi si guardano bene dall’uscire dalla naftalina computergrafica.

"The Inevitable Defeat of Mister & Pete"

Spiace dirlo, ma è facile pensare che di fronte all’ingente impegno di budget un’ancora di salvezza sia stata individuata nel mettere i contenuti a bagnomaria nel più melenso “politicamente corretto”.

Temi affascinanti come la nostalgia di massa per l’infanzia dell’umanità o l’incubo ottocentesco circa la discendenza scimmiesca dell’uomo si traducono, ahinoi, nella consueta omelia terzomondista sui misfatti del colonialismo (soprattutto belga, ma per il buon peso anche e sempre yankee).

 

 

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