Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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I sette samurai con le colt

di Valerio Caprara

Il regista Antoine Fuqua, un mestierante che ha lasciato il segno solo con il poliziesco “Training Day”, presenta  “I magnifici sette” un filmaccione che ha dalla sua un’accattivante baldanza, ma sconta purtroppo due megadifetti. Il primo è l’handicap patito dai nuovi e (troppo) trendy interpreti nell’inevitabile confronto con i big vintage Brynner, McQueen, Coburn, Bronson & company; il secondo è l’ossessione del politicamente corretto che sta avvelenando i pozzi del patrimonio hollywoodiano

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Il western è un genere da anni obsoleto, ma pochi sanno quanto restino vive le attese e le motivazioni degli adepti. L’ultimo problema l’ha generato, peraltro, Tarantino, le cui recenti incursioni ne hanno destrutturato il dna volteggiando sull’orlo del fossato che divide i classici americani dai neoclassici leoniani; mentre ottengono scarsa fortuna, spesso ingiustamente come nel caso dell’ottimo “Appaloosa” di Ed Harris, le sortite mirate più semplicemente al recupero filologico e/o all’effetto nostalgia.

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Valerio Caprara

“I magnifici sette”, presentato in chiusura della Mostra di Venezia, si dispone in quest’ultima categoria cercando di proteggersi, però, con lo scudo del remake di un remake: l’omonimo cult di Sturges (1960), infatti, era a sua volta il rifacimento in chiave western dei “Sette samurai” di Kurosawa di cui riprendeva alla lettera la trama annacquandone il nitore stilistico.

Il regista Antoine Fuqua, un mestierante che ha lasciato il segno solo con il poliziesco “Training Day”, presenta adesso un filmaccione che ha dalla sua un’accattivante baldanza, ma sconta purtroppo due megadifetti. Il primo è l’handicap patito dai nuovi e (troppo) trendy interpreti nell’inevitabile confronto con i big vintage Brynner, McQueen, Coburn, Bronson & company; il secondo è l’ossessione del politicamente corretto che sta avvelenando i pozzi del patrimonio hollywoodiano.

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Tutto succede, in effetti, all’ombra del carismatico Washington nel ruolo di Chisolm, il bounty-killer nero a cui la vedova di un poverocristo trucidato nel prologo affida il compito di difendere Rose Creek dal brutale signorotto che ha osato bruciare persino la chiesa del villaggio.

Tra gli arruolati per la missione impossibile compaiono, come da copione (co-firmato con la mano sinistra dal Pizzolatto di “True Detective”), anche un asiatico, un messicano e un pellerossa, ma nessuno di loro e neppure il tiratore Hawke, il giocatore Pratt e il trapper D’Onofrio riescono ad aggiungere un vero slancio epico né una qualsiasi revisione storica alla fornitura di spettacolo ottima e abbondante (inquadrature acrobatiche, cavalcate, esplosioni, sventagliate di mitraglia e stunt che si guadagnano la paga in ogni fotogramma).

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La ragione sta proprio nel fatto che la banda di bastardi s’imbarca nell’impresa suicida con le idee drammaturgicamente confuse, un misto di recupero poco convinto dei valori dell’amicizia virile, cinismo simil-Django, sarcasmo in stile Eastwood e allusioni a buon mercato alle attuali diatribe di frontiera tra Usa e Messico e ai dilemmi etico-politici della lotta al terrorismo.

 

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