Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

LA LA LAND

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di Valerio Caprara

 Sarà un limite? La La Land sta bruciando tutte le tappe della gloria cinematografica, ma forse piacerà davvero solo agli spettatori innamorati. A tutti gli altri in condizioni meno propizie, però, il nuovo exploit del trentunenne americano Chazelle (il cui padre è un eminente matematico francese che attualmente insegna a Princeton), già autore dell’eccellente Whiplash, procurerà benefici effetti per il brio giovanile e il taglio postmoderno con cui trasforma l’omaggio smaccato all’epoca d’oro del musical hollywoodiano in un poemetto sull’inesorabile corsa del tempo e l’impossibilità di condividere per sempre i sogni persino con chi ti ha aiutato a realizzarli.

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Esattamente quello che succede a Mia, barista negli studi della Warner abbonata ai fallimenti nei provini che dovrebbero aprirle le porte del cinema e a Sebastian, musicista jazz anche lui impegnato a Los Angeles in una donchisciottesca lotta contro la necessità di guadagnarsi il pane quotidiano che gli nega quella di mostrare al mondo il suo avanguardistico talento.

Poco a poco, per la gioia delle platee avide di lasciarsi alle spalle tempi non proprio festosi e incoraggianti, si piacciono e si accoppiano anche se, a veder bene, il romantico evento si basa sul meno poetico meccanismo del mutuo scambio carrieristico. Su questo scivoloso terreno la regia s’aggancia, peraltro, a efficaci puntelli, tra cui quello della solita protesta contro la ‘sporca società’ che avrebbe –allora come sempre- perduto la misura del gusto e dei valori artistici.

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Valerio Caprara

L’abilità o, se volete, furbizia del film (al di là del fatto ininfluente che sia giustificata o meno la pioggia di nomination all’Oscar) risiede, tra l’altro, nel permettere una duplice chance di ricezione: quella, appunto, immediata garantita dal classico leitmotiv del boy meets girl e quella indotta dalla sensazione che sia destinato a disgregarsi non tanto o non solo il cemento di qualsiasi coppia, bensì la struttura della macchina-cinema così come l’abbiamo conosciuta sino a oggi.

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E’ solo in questa chiave, infatti, che può funzionare l’arduo equilibrio tra l’apparente invito ad abbandonarsi a uno scontato culto cinéfilo e le tante citazioni criptate (da Cantando sotto la pioggia e Gioventù bruciata ai dipinti di Hopper) che segnalano, invece, come il fascino e l’emozione del film si basino in realtà sull’inutilità di rimpiangerle.

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Al di là dell’estrema gradevolezza degli snodi tra ballo e canto sospesi sui virtuosismi della fotografia e il montaggio (mentre le musiche e le canzoni sono accattivanti, ma non eccelse), è ancora quest’equilibrio che sorregge le figure della Stone (bravissima, ma francamente assai poco affascinante) e del post-Gene Kelly Gosling, le droga, per così dire, al momento delle aperture favolistiche e le rende funzionali a proporzioni drammaturgiche piuttosto ridotte, per fare solo un esempio, rispetto a quelle della Kidman e McGregor nel vertiginoso sincretismo pop di Moulin Rouge.

 

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