di Valerio Caprara
Firmato dallo specialista in odissee ferine Jean Jaques Annaud, il film è la trasposizione del libro più letto in Cina dopo quello rosso di Mao. “L’ultimo lupo”, con Shaofeng Feng, Shawn Dou e Yin Zhusheng, offre allo spettatore una sfilata di sequenze maestose e paesaggi di una bellezza incantevole…
“L’ultimo lupo” ha sicuramente i difetti del blockbuster ruffiano nei confronti degli animali incalzati dal pericolo dell’estinzione, ma offre allo spettatore una tale sfilata di sequenze maestose, paesaggi di una bellezza incantevole e scene venatorie avvincenti e realistiche da farsi perdonare la non iscrizione al club degli spettatori smaliziati.
Firmato dallo specialista in odissee ferine Annaud, il film è la trasposizione del libro (Mondadori ediz. Italiana) più letto in Cina dopo quello rosso di Mao: se non si è in vena di amare ironie e considerando anche l’oceanico successo al botteghino del film, il dato servirà a fare riflettere sullo strapotere universale delle fiabe moderne incentrate sull’utopia ecologista.
Con i toni altisonanti adatti all’occasione, il film racconta del giovane Chen costretto dalla Rivoluzione Culturale a lasciare Pechino per rieducare ed essere rieducato nel corso di uno scomodissimo soggiorno nella misteriosa Mongolia. Anche grazie allo spirito ribelle dei locali, nient’affatto rassegnati a farsi indottrinare dai dettami delle Guardie Rosse, il protagonista riesce a entrare in contatto di pelle e di cuore con lo spirito dei luoghi di cui i lupi, predatori per eccellenza, incarnano l’anima più mitica e temuta.
Il cittadino ha modo, così, di procedere a un’iniziazione che rappresenta la perfetta antitesi degli indottrinamenti ideologici, cedendo però all’insano proposito di allevare un cucciolo di quella feroce e magnifica specie che si merita appieno la libertà e il perenne vagabondaggio nel contesto di una natura non addomesticata (checché ne pensino i contadini delle nostre meno selvatiche contrade).
Impossibile pretendere, a questo punto, la sociologia sulla vita dei nomadi e neppure un’interpretazione ad alto tasso filosofico dell’interazione antropologica di sacro e soprannaturale e, per quanto ci riguarda, ci si può accontentare delle riprese a rotta di collo tra i boschi e le steppe della natura primordiale.