Valerio Caprara

Valerio Caprara

Professore di Storia e critica del cinema all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e dal 1979 critico cinematografico del quotidiano “Il Mattino”. Presidente della Campania Film Commission.

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In nome di mia figlia

di Valerio Caprara

Chi sceglie questo tipo di film non può augurarsi, in effetti, molto di più di tre componenti positive: la precisione e il ritmo della messinscena, l’aderenza e il valore degli interpreti e il plusvalore di un’originalità autoriale

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E’ utile premettere che In nome di mia figlia rientra nei canoni di un paio di generi per cui il pubblico ha sempre dimostrato interesse, il film-inchiesta e quello giudiziario.

Non a caso il regista francese Garenq ha acquisito una discreta fama grazie a titoli come Présumé coupable e L’enquete che rientrano appieno nella tradizione nazionale dei Clouzot e dei Cayatte; anzi, in particolare, richiamano il tipico taglio di quest’ultimo che tra i ’50 e i ’60 suscitava scalpore perché –al contrario del courtroom movie all’americana- metteva polemicamente in dubbio il corretto funzionamento della cruciale istituzione democratica (Giustizia è fatta, Siamo tutti assassini).

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E proprio su questo tasto, purtroppo ricorrente ma oggi surclassato da problematiche ancora più roventi, ruota la metafora portante della trama: la lotta del minimo comune cittadino contro il formalismo esasperato e gli accomodamenti diplomatici che finiscono troppo spesso per proteggere il sopruso o addirittura sancire l’ingiustizia.

Chi sceglie questo tipo di film non può augurarsi, in effetti, molto di più di tre componenti positive: la precisione e il ritmo della messinscena, l’aderenza e il valore degli interpreti e il plusvalore di un’originalità autoriale. Per quanto riguarda la prima, Garenq procede senza intoppi: la narrazione risulta lineare e sintetica con la vita felice della famiglia Bamberski dolorosamente interrotta dalla scoperta della relazione adulterina della moglie Dany (M.-J. Croze) con il medico tedesco Krombach (S. Koch).

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Il vero calvario del capofamiglia, il mite e probo commercialista André (Auteuil), inizia però nel luglio dell’82, quando a Lindau sul lago di Costanza una terribile disgrazia colpisce la figlia quattordicenne Kalinka mentre è in vacanza con la madre e il patrigno. Da questo momento il film insegue senza abbassare la tensione o mancare un dettaglio l’incredibile odissea che attraverso quasi trent’anni di battaglie legali, psicologiche, fisiche, legali e persino criminose accompagnerà la terribile convinzione di André…

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Una sfida monotematica notevole che punta tutto, ovviamente, sul protagonista in cui s’incarna con stupefacente naturalezza e credibilità quell’attore di caratura superiore che è Auteuil: dalla pena che devasta al rovello del dubbio, dalla suspense dei referti alla ricerche delle prove, dalle vittorie alle beffe in udienza, l’attore riesce a trasmettere senza cedere al più impercettibile scatto istrionico la “normalità” di un’ossessione e viceversa.

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Una volta giunto, però, sul terzo gradino, il film mostra inaspettate debolezze e rivela quanto gli manchi lo sguardo a 180 gradi di uno Chabrol o di un Egoyan, maestri delle inquietudini umane e societarie che trascendono la congruità dei materiali documentali.

Nonostante Auteuil, insomma, il fittissimo contorno dei riscontri rischia a poco a poco di perdere la tensione stilistica in favore di quella cronachistica e di lasciare l’impressione finale di un film onesto quanto superfluo.

 

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