Antonello Grassi

Antonello Grassi

Giornalista e scrittore. Ha lavorato per molti quotidiani, ultimo il Quotidiano della Basilicata di cui ha diretto la redazione materana

NaTo, ritorno al futuro 
 Lo Cicero, Napoli e Torino: lo sviluppo possibile di Ponente      
di Antonello Grassi

Napoli e Torino
Il vento di Ponente

di Antonello Grassi

 In base a valutazioni Svimez nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5 per cento, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2 per cento), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4 per cento). Da rilevare che per il sesto anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area. Negli anni di crisi 2008-2013 il Sud ha perso -13,3% contro il 7 per cento del Centro-Nord. Nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443mila a 1 milione 14mila, il 40 per cento in più solo nell’ultimo anno.

Dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27 per cento del proprio prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-53 per cento.) E ci fermiamo qui. Ma potremmo andare ancora avanti con la rappresentazione dello sfacelo del Sud e della sua desertificazione industriale.

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Massimo Lo Cicero

E’ la vecchia questione meridionale che si ripropone drammaticamente. Niente di nuovo. L’immobilismo endemico, l’incapacità e le colpe di tutti.  L’Italia e il Sud sono troppo fermi e i pochi cambiamenti avvenuti, spesso hanno peggiorato e non migliorato la situazione. Sia chiaro: ci sono colpe del Sud verso se stesso, che si sono tradotte in arretratezza, mancanza di sviluppo e di futuro. Ma sia altrettanto chiaro: ci sono le colpe dei vari governi che hanno di volta in volta fallito nella missione di trasformare il Sud, di avviare un reale, effettivo rilancio del Mezzogiorno che è possibile realizzare. Attuando, ad esempio,  una politica economica condivisa tra il triangolo industriale e il Mezzogiorno e lanciando un’integrazione tra Torino e Napoli, due ex capitali, che potrebbero essere i poli di un nuovo meccanismo di sviluppo alternativo a quello degli anni Cinquanta, quando la Cassa promuoveva l’industrializzazione del Mezzogiorno e gli emigranti partivano per il Nord.

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L’economista e saggista napoletano Massimo Lo Cicero in “Sud a perdere?” ha anticipato tutti questi temi sempre più d’attualità, accendendo anche i riflettori sul grande tema della macroregione che poi è stato fatto suo dal presidente della Regione Stefano Caldoro.

E da lì è nata una sorta di reazione a catena. Ora ne parlano tutti i Governatori del Sud…   Il fatto è che quando uscì il mio libro, nel 2010, non molti ci fecero caso. Forse è colpa del titolo: “Sud a perdere”. E siccome il Sud è veramente a perdere, nessuno ha mai riflettuto davvero sulle tesi di quel saggio.

E perché ora, invece, lo riscoprono? Perché tutti hanno capito che è necessario far qualcosa. Che la stagione dei soldi pubblici è finita per sempre. E che il Sud ha delle carte da giocare. Il Mezzogiorno, se vuole, è in grado di competere sul mercato. Ma ha bisogno di una forma di governo che sia capace di assecondare le reali potenzialità del territorio. Ed è evidente che la Regione ha fallito.

Ma le Regioni sono diverse una dall’altra…  Appunto. E da questo bisogna partire. Le regioni del Sud sono molto diverse, quantitativamente e qualitativamente, tra loro. Pensi che la Basilicata, che pure ha un potenziale strategico enorme, equivale a un quartiere di Napoli; che la Campania, con i suoi 6 milioni di abitanti, è una petroliera scassata che affonda. Consideri che, insieme, Campania e Puglia equivalgono alla metà del Mezzogiorno; e che mentre la prima è un inferno che grava su una città bubbone, la seconda una regione ormai ricca, con un territorio – al confronto –  ben strutturato.

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Un rompicapo, insomma… Il Sud è un guazzabuglio. Non resta che varare questa benedetta area metropolitana di Napoli e fare del Mezzogiorno una grande regione tenendo fuori la Sicilia che è un caso a sé.

E come dovrebbe funzionare questa macroregione? La mia idea è copiare il modello realizzato da Mario Draghi.

Draghi, il presidente della Banca centrale europea? Esatto. Mi segua. La Bce è un consorzio di banche centrali che hanno accettato di utilizzare l’euro come valuta. Ogni istituto di credito ha un suo rappresentante nel comitato: quest’ultimo esprime un vertice fatto di sei presidenti con un coordinatore a turno. Allo stesso modo la macroregione del Sud sarebbe governata da un’unica entità: un consorzio in cui siedono i vari governatori delle Regioni e del quale uno di essi, a rotazione, sarebbe il coordinatore. E intorno tutto il resto. I presidenti si riunirebbero periodicamente mettendo in comune le cose da fare e dettando le strategie. Poi si tratterebbe di applicare i programmi in maniera coordinata.

Un po’ come avviene in Europa… Si. Né più né meno di quello che fa la commissione Ue. Sembra complicato, ma non lo è affatto. Questo consorzio dovrebbe essere una struttura leggera. Andrebbero azzerati, o fortemente ridimensionati, tutti quei pletorici organismi che oggi pascolano nelle Regioni.

Si eviterebbero sprechi… Ce ne sono di enormi. Pensi che la Campania ha quattro cinque volte il numero di dipendenti del Piemonte. E dire che le due regioni sono grosso modo equivalenti. E poi, naturalmente, bisognerebbe diminuire i consiglieri comunali, mettere a dieta i Comuni. Insomma: fare una grande opera di snellimento.

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Torino dal monte dei Cappuccini

E quale strategia suggerirebbe a questa ipotetica macroregione? Per prima cosa questo consorzio dovrebbe dettare linee di indirizzo per un rilancio delle relazioni tra est e ovest, tra montagna e pianura. Quello è un delicato e importante nodo da risolvere.

E che cosa fare?  Si dovrebbe un asse – ne ho anche parlato in un libro, “La virgola di Ponente” – tra il Mezzogiorno e le regioni Piemonte e Liguria. Vede? Se quelle due regioni del Nord hanno come perno la città di Torino, il Sud ha come riferimento Napoli. Torino e Napoli sono le due “seconde città d’Italia”. La prima rispetto a Milano, la seconda rispetto a Roma.

Napoli vista da Castel Sant'Elmo

Napoli da Castel Sant’Elmo

Queste due aree, Mezzogiorno e Piemonte-Liguria sono collegate a ponente attraverso il Tirreno, dove entrambe s’affacciano. Però, tramite Napoli, si arriva fino alla Puglia, passando attraverso la Basilicata. Tra i due sistemi territoriali ci sono quelle che io chiamo continuità: l’industria delle automobili, la meccanica spaziale, la filiera del vino. E poi due grandi banche come Unicredit e Intesa. Ecco la virgola di cui parlo, dal punto di vista territoriale, che terrebbe insieme regioni del Nord e del Sud, vale a dire la metà d’Italia. A questa virgola di ponente farebbe da contraltare l’area, per così dire, austroungarica, che va dalla Toscana al Veneto….

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 Quante macroregioni si potrebbero creare? Senza esagerare. Se ne potrebbero fare tre o quattro. Non sarebbe un gran trauma. L’Italia nasce comunale, non regionale. Non è un caso se lo chiamiamo il Paese delle cento città, ed è in questo tipo di Paese che l’italiano si riconosce, forma la sua identità. Le  nuove macroregioni hanno semplicemente il compito di mettere in relazione quello che hanno al loro interno secondo una strategia condivisa. Il Mezzogiorno ha circa 20 milioni di abitanti. Come una grande città americana. Come Los Angeles e San Francisco insieme. Soltanto che noi per andare da Napoli e  Bari  ci mettiamo ancora più di tre ore. Abitiamo un territorio non integrato.

Pensa a una confederazione di regioni-stato, come negli Usa?  No, al contrario. Questo è quello che vorrebbero i leghisti. Una banda di contadini impazziti…Se si facesse la Padania come dicono loro, sarebbe come rifare la colonia austroungarica prima che arrivassero i Savoia. Una cosa stupida e provinciale. Un ritorno al passato quando invece bisogna guardare al futuro. No. Lo Stato deve essere italiano, non siamo fatti per essere confederati. L’Italia o è una nazione o è niente.

I meridionali sono pronti ad accettare la macroregione del Sud? E’ una bella scommessa. Ma io sono convinto che tra i 20 milioni di abitanti del Mezzogiorno ce ne sono tantissimi che sarebbero disposti a entrare in un sistema di relazioni reale, molto meno pubblico. Poi, è chiaro, c’è una larga fetta di meridionali che vive a spese dello Stato. Ed è ovvio che questi ultimi si direbbero indignati dall’idea di abolire i vecchi enti in favore di un a macroregione. Ma io credo che se il Mezzogiorno  vuole rimettersi in gioco  debba smetterla di farsi gestire dal pubblico.

 

 

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