di Giuseppe Crimaldi
La sveglia suona presto, stamattina. Giù dal letto alle 5,30 mentre fuori è ancora buio e su Gerusalemme sta cadendo una pioggia leggera. Quando arriva il primo taglio di luce siamo già sull’autobus che corre in direzione del valico di Erez e dunque sul lembo meridionale più estremo di Israele, ciò che lo separa dalla striscia di Gaza.
A duecento metri da qui ci sono le postazioni dei miliziani di Hamas con le batterie missilistiche perennemente puntate su Sderot, Ashqelon è uno storico glorioso kibbutz che coi suoi cento ragazzi seppe resistere alla prima guerra contro l’Egitto di Nasser; a meno di cento chilometri, verso oriente, invece c’è l’Isis con i suoi tagliagole vestiti di nero color morte. Man mano che il convoglio avanza avvicinandosi alla meta, la condizione del pericolo – e con essa il sentimento della paura – si fa sempre più palpabile. Sotto i nostri piedi correvano (e forse continuano a scorrere) i tunnel scavati dai palestinesi utilizzati l’estate scorsa per colpire con azioni terroristiche la popolazione civile israeliana. Un labirinto di vergogna, se si pensa quanto sia costato e, soprattutto, quanto è costato ai belligeranti di Hamas.
Attenzione: quando si dice tunnel si è portati a immaginare cunicoli erosi artigianalmente attraverso i quali si striscia a malapena. Non è così: si tratta invece di vere e proprie gallerie rinforzate su tutte le pareti da cemento armato, bene illuminate e dotate di condotti capaci di garantire un’ossigenazione costante e perfetta. Tra febbraio e maggio del 2014 molti abitanti dei villaggi e delle cittadine e dei villaggi israeliani avevano segnalato rumori sospetti provenienti dalle viscere del sottosuolo: parlavano di vibrazioni e piccole scosse che salivano dalle profondità della terra fino a scuotere vetri e pareti delle loro abitazioni. Erano le talpe di Hamas che lavoravano giorno e notte per completare il loro capolavoro di strategia terroristica: un affare anche per gli operai palestinesi, pagati 50 dollari al giorno; una enormità rispetto ai salari da fame normalmente corrisposti dai governanti di Gaza alla propria gente.
Oggi in questa zona la base militare dell’esercito israeliano resta ancora il presidio di frontiera più rovente del Sud del Paese. Centocinquanta soldati a presidiare un eterno “chi-va-là”, supportati da una efficientissima rete di videosorveglianza messa a protezione del muro che separa il confine. Filo spinato e cavalli di frisia disegnano il paesaggio spettrale che segna il punto ideale tra la guerra e la pace, tra la vita e la morte. E’ da questo momento in poi che mi ritrovo incollato alle spalle un ragazzino in divisa verdeoliva con l’M4 a tracolla e un sorriso disarmante. Si chiama Leo: ha appena 18 anni e ha appena cominciato il servizio di leva, che qui in Israele dura tre anni. Parla un italiano perfetto, e scopro che è figlio di una ebrea sarda di Oristano che ha sposato un israeliano e si è trasferita vent’anni fa per iniziare una nuova vita nella terra dei padri. Leo sarà il mio angelo custode per questa giornata. Poco più che bambino, e già tutore della mia, della nostra incolumità.
Dicevamo dei tunnel. Tra i tanti, a luglio l’esercito ne scoprì uno lungo ben otto chilometri. Come spiegarono allora gli ufficiali Hamas vi avrebbe potuto far passare decine di terroristi, anche centinaia, prima che si fosse riusciti a trovarne l’apertura. Quella scoperta riuscì a sventare un attentato di grande portata. Fino a oggi Israele è riuscito a scoprire oltre 30 tunnel, con 100 ingressi diversi. Secondo il quotidiano “Maariv”, Hamas progettava di lanciare una devastante offensiva alla fine di settembre, in occasione del Capodanno ebraico. In quella circostanza centinaia di palestinesi armati sarebbero sbucati all’improvviso dal terreno, attaccando sei località israeliane di confine. Il loro compito era di seminare la morte e di catturare il più alto numero di civili da portare poi come ostaggi nella Striscia.
Oggi la strategia di Hamas è cambiata. Colpire i civili israeliani resta pur sempre un obiettivo valido, ma la vera priorità pare sia diventata un’altra: rapire quanti più soldati di Tsahal è possibile. E per questo la vita di Leo – come quella dei suoi commilitoni in questo inferno popolato da ombre che scivolano ed emergono come diavoli dal sottosuolo – corre ora dopo ora sul filo di un rasoio. Hamas sa bene che la vita di un soldato israeliano può valere tanto. Dopo il sequestro di Gilad Shalit (rapito nel 2006 e liberato solo cinque anni dopo grazie alla mediazione dell’Egitto e – soprattutto – dopo il pagamento di un riscatto ingentissimo e la liberazione di oltre mille terroristi palestinesi detenuti in Israele) Gaza punta su nuovi sequestri di persona. Proprio come facevano quelli dell’Anonima sarda, con le ovvie e dovute differenze.
Di qui l’importanza strategica dei tunnel sotterranei. Opere di raffinata tecnologia messa al soldo di una sporca guerriglia. Le gallerie sono edificate in cemento; così pure i soffitti, a forma di volta. Lungo le pareti corrono fili elettrici, mentre sul pavimento vi sono binari utilizzati per lo smaltimento del terriccio. Il loro costo è stimato sui 3-4 milioni di shekel: 600-800 mila euro. Adesso l’esercito è impegnato nella distruzione di questa rete di tunnel, ma si tratta di una operazione rischiosa che va condotta con circospezione. “I soldati che nella striscia di Gaza cercano le aperture dei tunnel sono esposti al fuoco di cecchini, dell’artiglieria palestinese, di ordigni o di razzi anti-carro. All’interno dei tunnel, inoltre, potrebbero nascondersi ancora combattenti palestinesi; oppure potrebbero essere state celate micidiali cariche esplosive.
Leo lo sa bene, ma non smette mai di sorridere con lo sguardo da bambino cresciuto in fretta, come succede a tutti da queste parti. L’accordo sul cessate il fuoco nella striscia di Gaza ha portato alla riapertura, da parte israeliana, del valico di Erez. Di qui transitavano 8000 lavoratori al giorno, prima della guerra. Oggi Israele assicura il transito ai palestinesi della Striscia che hanno permessi speciali: malati, commercianti, possono ora tornare a riattraversare il confine. E, nonostante tutto, Israele garantisce attraverso questo terminal anche il passaggio di generi alimentari, materiali edili e quant’altro necessario per la vita dei cittadini di Gaza.
(2 – continua)