di Giuseppe Crimaldi
Dopo ogni guerra ciò che resta sono solo due cose: le cifre ufficiali e – finché dura – il ricordo dei protagonisti. Quand’ero alle elementari – col fiocchetto bianco annodato in gola sul grembiulino blu – ci facevano cantare “Il 24 maggio”: parole e musica struggenti, nel ricordo dell’eroismo patriottico che da vinti ci fece diventare vincitori.
Non so se oggi ci sia un bambino di sette-otto anni che conosca quelle note e quelle strofe. So, invece, di essermi imbattuto (per puro caso, durante un giorno di vacanza) in una storia che ignoravo e che mi ha fatto vergognare di essere italiano.
E’ una storia volutamente dimenticata. Che nessuno celebra: nemmeno tra le migliaia di turisti in visita sull’isola del lembo nordoccidentale più estremo della Sardegna, i quali restano distratti pur passando dinanzi quell’inquietante sacrario sul quale campeggia la scritta “Pax”; preferiscono un bagno rinfrescante nella baia color smeraldo alla scalinata che conduce verso quel luogo simbolo di dolore e sofferenza.
La chiamiamo ancora “la Grande Guerra”. Quella che tra il 1914 e il 1918 sterminò 13 milioni di uomini in divisa. Una tragedia epocale.
La retorica nazionale della “Grande Guerra”, oggi, nasconde a chi studia la storia uno dei misfatti più atroci mai commessi dal Regno d’Italia: la deportazione (in meno di due mesi) di 24mila prigionieri “di guerra”: tutti giovanissimi, ragazzi tra i 19 e i 22 anni. Austro ungarici mandati al massacro da Vienna, che nei suoi piani di guerra intendeva invadere l’Italia via mare, dall’Albania alla Puglia.
In quella che venne definita la “marcia della morte”, i soldatini -nell’attraversare in condizioni proibitive le alture battute dal gelo del rigido inverno serbo – vennero catturati e consegnati all’Italia. Sessantamila prigionieri austro ungarici. Un numero impressionante ingestibile nei campi di prigionia di quello stato. L’Italia – che ambiva ad assicurarsi un ruolo guida nei Balcani – riuscì a farsi assegnare la gestione dell’emergenza, salvo poi dimostrarsi del tutto impreparata ad amministrare in maniera adeguata il problema.
Infatti ad ondate successive e in sole otto settimane 24.000 prigionieri raggiunsero la piccola isola dell’Asinara. Altri sbarcarono nelle settimane successive. Più di 1.500 uomini morirono durante il viaggio, molti altri arrivarono stremati e già segnati dalle malattie.
Era l’anno 1916 e in sole due settimane morirono più di 1.300 prigionieri per arrivare a 7.000 decessi nei primi tre mesi di prigionia.
Il misfatto sabaudo Ho letto due libri sull’argomento. Ritrovarli non è stato agevole, e per questo ringrazio il mio amico Carmine Monaco. Il primo volume è “I prigionieri di guerra austriaci all’Asinara. 18 dicembre 1915-24 luglio 1916″, conservato all’Archivio centrale dello Stato e pubblicato a cura di Assunta Trova e Giuseppe Zichi, pubblicato da Edes Editrice Democratica Sarda; il secondo è “I dannati dell’Asinara”, scritto da Luca Gorgolini ed edito da Utet.
“Fin dal 1885 – scrivono gli autori del primo volume – l’Asinara venne considerata alla stregua di un luogo nel quale lo Stato poteva esercitare ogni sorta di diritto. Cacciata l’intera popolazione (qualche centinaio di individui, tra i quali un cospicuo numero di famiglie di pescatori napoletani che ivi si erano insediati), vi venne così creata una stazione internazionale di quarantena marittima, destinata ad evitare la diffusione di malattie contagiose, e contemporaneamente una colonia penale agricola all’aperto. Per gli abitanti dell’isola non ci furono le contropartite attese”.
La cappella che si trova all’Asinara è in realtà un ossario che contiene i resti delle migliaia di giovani lasciati colpevolmente morire tra stenti e sofferenze. Teschi e tibie “disinfettati” nella calce viva e messi in teca. L’icona di una guerra fatta combattere agli innocenti da cancellerie criminali.
L’ossario non fu edificato dagli italiani, ma dai combattenti-prigionieri del fronte opposto: “Prigionieri austro-ungarici sopravvissuti ad una vera e propria odissea, fatta di fame, freddo, malattie, come tifo e colera”.
Epidemie che seguivano gli eserciti e uccidevano lontano dai campi di battaglia , dalle trincee, dagli ospedali da campo e militari. “Morti oscure , non circondate dall’aura del sacrificio, non celebrate, non ricordate nei bollettini di guerra. Nella cappella dell’Asinara è scritta un’altra storia della guerra e dei suoi orrori. Che comincia con l’invasione della Serbia da parte dell’esercito austro-ungarico, una delle prime operazioni militari dopo lo scoppio della guerra”.
La marcia della morte Erano seguite, nel settembre-dicembre 1914, una serie di offensive e controffensive serbe che avevano portato alla cattura di un grossissimo contingente dell’esercito austro-ungarico (76 mila uomini).
Nell’ottobre del 1915, l’offensiva degli Imperi centrali aveva trovato un paese stremato da mesi di guerra, con la popolazione decimata dal tifo che aveva fatto strage tra i prigionieri di guerra. Per evitare la capitolazione il governo e l’esercito serbo avevano deciso di attraversare l’Albania e congiungersi alle forze alleate sulle coste dell’Adriatico, a Durazzo e Valona, città albanese sotto il controllo di un contingente militare italiano.
Era cominciato così il tragico esodo di 400 mila persone: il re Pietro I, la famiglia reale, la corte, l’’esercito, e un’intera popolazione di donne, vecchi, bambini. In testa i circa 50 mila prigionieri che i serbi avevano voluto portarsi dietro. Una “marcia della morte” che si svolge in pieno inverno, attraverso aspre montagne coperte di neve, su sentieri fangosi, sotto la pioggia e in mezzo al nevischio, evitando le soste per sfuggire agli attacchi dei partigiani greci e macedoni, tra popolazioni ostili che difendono le loro poche risorse con bastoni e fucili.
(1.continua)