di Giuseppe Crimaldi -
Nel 2014 la Nuova Sardegna si è occupata con un pregevole articolo, che riprendo, di questo misfatto tutto italiano. “I diari e le testimonianze dei sopravvissuti ci consegnano immagini spaventose di quella interminabile marcia, durata settantasette giorni, tra neve e fango senza ricoveri di alcun genere e senza cibo, se non erbe. I serbi non si preoccupavano certo del vitto dei prigionieri, privati di ogni avere, di coperte e mantelli e costretti a spalare la neve. I morenti venivano abbandonati per la strada.
“Siffatto era il terrore che dominava la famelica turba fuggente e così forte era l’istinto di sopravvivenza che neppure amici e parenti si fermavano a soccorrere chi si lasciava andare sfinito. Si nutrirono di erbacce, topi, ogni qualità di rettili bruciacchiati e divorati con voracità felina“, scrive un ufficiale italiano che aveva raccolto le drammatiche, sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti. Era il racconto dell’inferno.
Anche lo storico meno impressionabile, abituato a confrontarsi con resoconti di catastrofi naturali (come il terremoto-maremoto del 1908 che distrusse Messina) o con la morte di massa delle città dopo le incursioni di peste o colera, in pieno XIX secolo, resta sconvolto di fronte alle descrizioni della lotta per la vita di quegli uomini, nudi, scalzi, intirizziti, che si avventavano, azzuffandosi tra loro, su carogne di animali morti lungo la strada. Qualcuno parla perfino di episodi di antropofagia.
Mai nell’Europa moderna si era dato il caso di decine di migliaia di esseri umani costretti a regredire ad uno stato bestiale. Quando giunsero sulla costa albanese, a Valona, e vennero presi in consegna dai comandi italiani non avevano più nulla di umano: i visi grigio terra, i corpi ridotti a scheletri, le divise a brandelli, scalzi o con i piedi avvolti in stracci sporchi e fangosi.
Alcuni, testimonia un medico, nascondevano sotto i vestiti nauseabondi resti di carne cruda, strappata da cavalli morti.
Secondo gli accordi con gli alleati, la marina militare italiana avrebbe dovuto aiutare i profughi, imbarcarli su piroscafi, scortati da cacciatorpedinieri e trasportarli a Brindisi per poi consegnarli alla Francia.
Ma mentre si organizzava lo spostamento dell’esercito serbo a Corfù, il pericolo che il colera si diffondesse tra le truppe italiane spinse le autorità e gli alti comandi ad assumere la decisione di trasferire la massa dei prigionieri all’isola dell’Asinara, destinata a lazzaretto del Mediterraneo nel 1885, dopo l’epidemia di colera che aveva devastato Napoli. Nel 1914 vi si trovava una piccola stazione contumaciale per i malati, un piccolo ospedale, una direzione sanitaria, quattro baracche, alcuni fabbricati e un forno crematorio.
Di certo l’isola non era attrezzata per accogliere decine di migliaia di prigionieri, in parte colpiti da colera e altre malattie. In pochi giorni la Marina militare italiana organizzò un ponte navale per il trasporto dell’esercito serbo ( 481 uomini), dei profughi e dei malati a Corfù e dei prigionieri austro-ungarici all’Asinara.
Un’operazione umanitaria gigantesca di cui oggi – ha scritto qualcuno – si farebbe un’ esaltazione spettacolare. Il primo scaglione di 3.711 uomini partì dall’Albania il 16 dicembre a bordo dei piroscafi “America” e “Dante Alighieri”.
Da quel giorno e fino a metà gennaio 1916 tredici piroscafi portarono sull’isola 22.928 prigionieri di varie etnie, ungheresi, austriaci, boemi, croati. Nella fretta di sgomberare Valona, si procedette all’imbarco in tutta fretta e vennero meno tutte le misure profilattiche consigliate dalla Direzione generale di sanità. Malati e sani furono imbarcati insieme, con il risultato che la tremenda epidemia si diffuse nelle navi: circa 1500 morirono durante il viaggio o a Cala Reale, in rada, e i cadaveri furono gettati in mare.
Le cronache delle prime settimane ci consegnano scene di morte di massa: circa 6000 prigionieri muoiono di colera e vengono seppelliti, senza nome, in fosse comuni, cosparsi di calce viva. Di quella tragica vicenda, parallela ai grandi fatti d’arme che si svolsero in quei mesi sul fronte orientale, nelle quattro offensive sull’Isonzo – consegnate, queste sì, ai libri di storia – restano i segni materiali (la cappella, l’ossario, rovine di edifici, cippi funerari, cimiteri) che ci consentono di ricostruire un’altra faccia della guerra.
Nel centenario della prima guerra mondiale questa vicenda può essere un punto di partenza per consolidare nei giovani, futuro dei popoli, la consapevolezza del valore universale della pace. E per misurare il cammino percorso da allora per abbattere i confini e unire le nazioni e rendere possibile la condivisione di memorie, di idee e di aspirazioni che sono l’essenza del pensiero con cui i padri fondatori hanno dato vita al sogno dell’Europa unita”.
Tragedia dimenticata Altro che “Grande Guerra”. La morte di quei giovani pesa sulla coscienza del governo italiano dell’epoca, sulla casa reale sabauda, sulla stampa dell’epoca che si piegò – compiacente – al regime delle menzogne. Quei ragazzi mandati a morire vennero sottoposti, pur malati, anche ai lavori forzati. Quando sbarcarono a Cala Reale non sapevano neppure di essere arrivati all’Asinara, isola sperduta al nord della Sardegna, ma almeno nutrivano la speranza di sopravvivere.
Nel giro di un paio di settimane il ponte navale si completò e l’Asinara, sino a quel giorno popolata solo da un migliaio di prigionieri catturati nell’agosto precedente e da 350 militari italiani, si ritrovò affollata da 30mila superstiti di un’ armata multietnica e multilingue. Ungheresi, austriaci, boemi, croati: c’era rappresentato tutto l’impero asburgico ormai allo sbando. “Un caos i indescrivibile – scriverà Carlo Figari – mentre dalle navi sbarcavano i colerosi. Nei primi giorni morivano a centinaia, racconta a sua volta Alberto Monteverde: venivano gettati in mare terrorizzando i pescatori di Stintino e Porto Torres.”
Nella terraferma giravano voci che agghiacciavano la popolazione e così il prefetto di Sassari ordinò all’Esercito di fermare subito le operazioni. Mentre si annunciava l’arrivo di altre navi cariche di disperati, il generale Giuseppe Carmine Ferrari, comandante del presidio dell’Asinara, organizzò nell’isola un piano di accoglienza mai visto all’epoca e che anche oggi, con i mezzi e la tecnologia moderna, sarebbe difficile realizzare in tempi così rapidi. Esiste un raro documento che ricostruisce passo passo con militare pignoleria la tragedia di 90 anni fa. E’ il diario del generale Ferrari, all’epoca comandante del Presidio dell’Asinara. “Fu lui ad organizzare le operazioni di accoglienza e a tempo di record. Dalle sue pagine. emerge la cronaca quotidiana degli arrivi, dei decessi, delle enormi difficoltà per curare i colerosi, per assistere i moribondi, ma soprattutto per dare vestiti, cibo, coperte e almeno una tenda a quelle. migliaia di disperati che continuavano a sbarcare come un fiume inarrestabile“.
Per far fronte all’emergenza ci fu una vera mobilitazione: medici e personale sanitario furono inviati da Cagliari e Sassari, ingenti quantità di farina, riso e viveri nonostante la penuria dell’economia. di guerra dai magazzini di Porto Torres. Per vestire quella massa di soldati seminudi e scalzi spedirono berretti, giubbe, scarpe e pezze da piedi, ma anche il necessario per l’accampamento tende, stuoie, coperte, paglia, gavette, forni, attrezzi da lavoro e persino strumenti musicali. Dopo otto mesi i quindicimila superstiti, in gran parte ristabiliti, saranno imbarcati su tre navi e trasportati a Tolone per essere “consegnati” all’esercito francese.
Nell’agosto del 1916 l’Asinara era di nuovo deserta, i campi con gli ospedali, le tende e le baracche, smontati o abbandonati. Questo documento rivelatore è stato scoperto solo di recente, e comunque a tragedia compiuta. In quelle pagine inviate al Comando supremo di difesa il generale Ferrari ammetterà: “Nell’isola si trovavano già da tempo una piccola stazione contumaciale per i malati, un ospedale con trenta letti, una foresteria con uffici e magazzini, una direzione sanitaria, quattro baracche, alcuni fabbricati e un forno crematorio. Ma certo l’Asinara non era preparata ad accogliere migliaia di prigionieri in gran parte colpiti da colera e gravissime malattie. Manca tutto: acqua, luce, scorte alimentari e medicine”. Ferrari e i suoi uomini realizzarono in un paio di settimane sei campi: a Fornelli per accogliere i colerosi, Cala Reale, Cala d’Oliva, Stretti, Campo Perdu e infine a Tumbarino”. Ma questo non riuscì a evitare la colossale vergogna. Italiani, brava gente…
(2.fine)