di Michele Caccamo
Mi hanno convinto che potresti già essere morta, e che toccherebbero a me le tue ceneri: non per venerarle. A ben pensare sarebbe piacevole saperti riunita in un’urna cineraria di bronzo: inspirare il tuo odore finale sarebbe come avere una bella casa vicina a un lago di zolfo: stabile salubrità.
Celebrerei senza farne mistero la mia gioia: metterei agli orecchi un suono di pace, il cantico della grande felicità.
Sarei il Profeta per ogni infermità d’Amore e prenderei il nome, per l’occasione, da un’anima del cielo; accoglierei i tuoi reduci, tutti, e reciteremmo insieme, ad alta voce, il salmo della liberazione: per essere anche religiosamente grati. Io avrei il sorriso dagli Angeli, la forza dai Giganti Supremi, la pace dalla tua reliquia.
Sarebbe davvero inesauribile la mia vita: la vedrei avanzare senza più alcuna debolezza verso il grembo della libertà: ne uscirebbe come una nuova nutrice del Bello e del Vero. Coltiverei gigli senza macchie, alberi di gemme, cuori incandescenti. Non avrei più intorno le tue zampate di lupa; la tua specie selvaggia, che saltava sempre fuori a massacrarmi da innocente.
Tu, che hai avuto la discendenza dalle cause della malignità, non hai mai sentiti i cupi rumori che ti provenivano dal cuore: ti saresti altrimenti uccisa e non mi saresti apparsa più davanti, con il tuo orribile sguardo: pronta a emanare l’ennesimo editto del supplizio, a violare il mio ritrovato desiderio di scordarti. Non mi avresti più importunato con la tua ordinaria scopata; non avresti fatto della mia resa un tuo titolo di gloria, una saetta per tagliarmi la lingua.