di Giuseppe Merlino
Il 15 agosto è il V-J- Day, ovvero il Victory over Japan Day è il nome utilizzato in alcuni paesi per ricordare il giorno della resa del Giappone e quindi la fine effettiva della seconda guerra mondiale. Ma siccome la Guerra ha più facce e più verità il 15 agosto in Giappone, è giorno dello Shuusen-kinenbi, che significa letteralmente il “giorno della memoria per la fine della guerra”. il nome ufficiale, comunque, utilizzato per la commemorazione è “giorno di lutto per la guerra di morti e di preghiera per pace”, nome ufficiale adottato poco più di trenta anni fa con un decreto emesso dal governo giapponese. Il 15 agosto poi è celebrato come “Giorno della Liberazione” in entrambe le Coree, poiché le condizioni della resa incondizionata del Giappone includevano la fine dell’occupazione della Corea.
A mezzogiorno del 15 agosto 1945 la radio giapponese diffuse il discorso dell’imperatore Hirohito che annunciava la resa del Giappone.
“Nonostante siano stati fatti i migliori tentativi – il valoroso combattimento delle forze navali e militari, la diligenza e assiduità dei Nostri servi dello Stato e il devoto servizio dei Nostri cento milioni di compatrioti – la situazione bellica non si è sviluppata a vantaggio del Giappone e il corso mondiale si è voltato contro i nostri interessi. Ancor di più, il nemico ha cominciato a sviluppare una nuova e molto più disastrosa bomba, il cui potere di distruzione è, realmente, incalcolabile e in grado di togliere molte vite innocenti. Se dovessimo continuare a combattere, non ne risulterebbe che un completo collasso e una cancellazione della nazione giapponese e si condurrebbe anche alla totale estinzione della civiltà umana. Essendo tale il nostro caso, dobbiamo prima salvare i milioni di Nostri servitori o espiare le Nostre colpe fino al perdono dei Nostri Avi Imperiali? Questa è la ragione per cui Noi abbiamo ordinato di accettare le richieste della Dichiarazione Congiunta delle Potenze. Le difficoltà e sofferenze a cui la Nostra nazione sarà soggetta di qui a poco sarà certamente grande. Siamo consapevoli dei più intimi sentimenti di tutti voi, Nostri servitori. Tuttavia, è in base allo scorrere del tempo e del fato che abbiamo deciso di aprire la strada ad una grande pace per tutte le generazioni a venire, sopportando l’insopportabile e soffrendo l’insoffribile…”
Il Ministro della difesa Korechika Anami, che aveva controfirmato il testo del documento letto alla radio dall’Imperatore, si suicidò mediante harakiri prima che questo fosse letto alla radio.
In tutto il Giappone molti ufficiali si uccisero col sistema tradizionale harakiri, mentre una folla immensa in lacrime si radunava sotto il palazzo imperiale. Ogni tanto si udivano degli spari che indicavano qualche suicidio.
La resa fu poi materialmente firmata il 2 settembre 1945 a bordo della corazzata Usa Missouri, ancorata nella baia di Tokyo.
L’atto di resa fu firmato dai rappresentanti dell’Impero giapponese, Stati Uniti d’America, Repubblica di Cina, Regno Unito, Unione Sovietica, il Commonwealth dell’Australia, il Dominion del Canada, il Governo provvisorio della repubblica francese, il Regno dei Paesi Bassi, e il Dominion della Nuova Zelanda sul ponte della nave.
Molti militari giapponesi in tutto il mondo (soprattutto nelle isole del pacifico, in Indocina, in Brimania, in Indonesia, in Thailandia e nelle Filippine) non accettarono la resa e continuarono a combattere come bande irregolari, proprio come fecero gli italiani in Etiopia dopo la caduta di Addis Abeba.
Gli ultimi resistenti giapponesi furono catturati in Indonesia nel 1974, ma c’è un caso di due soldati giapponesi che si erano uniti alla guerriglia locale, catturati in Thailandia nel 1991.