Marco Catizone

Marco Catizone

Avvocato, scrittore satirico e giornalista pubblicista. Scrive di politica, teatro e cultura su blog, siti e riviste on line.

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Napocalypse Now

di Marco Catizone

“Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore. L’orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici” (Marlon Brando alias Colonnello Kurtz, Apocalyse Now).

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Cronache livide da dead zone, da città dei crolli, umani e pericardici, cronache da casamicciole telluriche e pencolanti, nel barnum orrorifico, di morti sbertucciate all’ombra dei vicoli in fiore, rigagnoli di vite interrotte che s’agitano riversandosi nel buco nero d’una città cannibale, che sutura le ferite, si strappa ai funerali, jastemma in preda ad esorcismi paranoidi, ad enfasi miracolosa, scolorisce nelle sue acque ormai budellose, svapora nel suo golfo, nei miceti allucinogeni della sua pezzenteria luccicante, come pece scolpita a mani nude, e di svacantare questi bidoni di morti accise, infuocati di piombo, avvelenati d’inedia e malamorte, nel cantero stradale siam stanchi pure noi, cicisbei dalla bella penna, che a battere i tablet, smanettare gli iphone, schiacciare i tastini della nostra miscredenza laicizzata, davvero non ci stancheremmo mai: batte l’ora, quella di sempre, quella più ingiusta, quando muoiono gli inermi su basoli sbreccati.

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A la guerre comme à la guerre,  nel cuore grumoso di Napocalypsenow, tre faide o giù di lì a rimestare le nasse d’una risacca perenne, di ammazzamenti,  regolamenti, di gente ‘e mmerda, coi “ferri” del mestiere schifosamente ferini, da usare come croci, per segnare i corpi come eterni nosferatu, ad esorcizzare il ritorno, memento mori e barbari, scolpito sulla carne di vittime scamazzate e fetienti ingabbiati; dal centro a-storico, perché senza più origine, alla periferia butterata come buatta sfregiata a colpi di kalashnikov, va in scena l’horror vacui picture sciò alle vongole: a Forcella “paranze di bimbi” che scannano a lacerti il costato metropolitano, alla Sanità urla nel buio che spaccano le membra, proiettili traccianti che illuminano la fine, ragazzini stecchiti per vendetta o avvertimento, monacielli strafatti a coca e sangue, bombe a mano ritrovate, kamikaze omicidi in scooter truccati, Saigon e Beirut non sono mai parse sì vicine.

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Senza steccati, senza quartiere, affondando nei crocicchi, nelle casematte, nei cunicula sommersi delle “famiglie” tribali, da Traiano a Soccavo, a est, ad ovest d’una bussola dispersa in mare, fin dai tempi di Cutolo ed ancora prima. Nel budello della micro-city grecoromana è guerra minorenne, tra il gruppo Sibillo-Giuliano-Brunetti-Amirante, contra gli ex margravi, i discendenti mazzarelliani (rectius della storica famiglia Mazzarella), droga al centro dell’onfalos, dell’eterna notte neapolitana; a Soccavo i Puccinelli e i Vigilia, a contendersi  brani limacciosi a sputi, e morsi, della periferia proletaria: in una sola notte 60 proiettili, colpi di mitra e pistole, altri 21 bossoli, indi una annassa a mano, una bomba vera, da Vietnam irredento e mai sopito. Batte il cuore della city, batte di paura e malaciorta, un tremito alla volta, e domani poi chissà.

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Che poi siam vermi, non c’illudiamo, strisciamo nella mota termale di suppurazioni tufacee, ché le ombre s’allungano sulle pietre scardate della nostra bella cartolina, che non basta un Lungomare a linea maginot, per arginare i fantasmi incatenati, ché gli scarrafoni, calcinacci, polvere e zoccole stanno dall’altra parte, nel dark side of the wall, tra cittadini scornati e abitanti in caduta “libberata”, a schiantarsi sul cemento indifferente d’una presenza invisibile, uno Stato da seduta spiritica, da evocarsi all’abbisogna nel momento, per smembrarne il lemure un minuto dopo, ove non occorra più la fastidiosa presenza, l’ingombro della divisa nel mercato di belzebù.

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Ché a metterli in fila, i grani di questa corona, sono acini corvini senza luce, malocchio essudante, esaudito; che a metterli in fila, diciassette anni a nudo sul selciato, feticcio di fallaci responsabilità, sono raschio viperino sulle vesti a calzoni corti d’un semi-innocente ormai defunto, segno e stigmate d’una crisi esiziale e sistemica; che a metterli in fila ne fai catena da accollare, peso, e piombo ad affondare ciò che d’umano resta a galla, in periferici carnasciali di baldanza mistificatoria, un carnevale cittadino offerto al voyerismo degli italici guardoni, tenendo ben in caldo il posto segnato per cianotica presenza, per guitto politicante a mezz’asta, l’ultimo della schiatta del Potere al gran ballo.

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Lastre e cornicioni, t’affacci e vedi il corpo; d’un ragazzino e di Neapoli: crolli fortissimamente crolli,  teatro ed ecclesia a far contorno, per defaillances rutilanti  di Palazzo; è domino, ammanco, la processione è partita, signò ‘a vedite ‘a prucessione? ‘O vedite ‘o muorto?, e se poi scappa, il morto, è per muta essenza, per ritrovare dignità, che c’è sempre spazio per refrisco e cunzulazione, che oggi è oggi, tanto ‘o passato passa: come nuttata, la malacqua, come fitta neve dilavata che tutto netta, come prece oleosa a cospargere le mani, imposte sulla città, gabelle a depredare torcere svacantare, taumaturgico tocco di signorotto medievale, e le pustole schiattano, la peste è plenaria e in luogo d’indulgenza, ché basta pregare, che poi tanto, a qualcuno tocca pur il conto; stavolta a un ragazzino, e domani…domani vedimme.

 

 

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