Franco Esposito

Franco Esposito

Giornalista e scrittore, inviato speciale de Il Mattino e del Corriere dello Sport. Presente a cinque edizioni dei campionati del mondo, 106 volte inviato al seguito della nazionale italiana di calcio e 34 viaggi negli Stati Uniti per i grandi appuntamenti di pugilato, Vincitore del Premio Coni 2011 e un record: tre finali consecutive al Premio Bancarella Sport

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Il maggiordomo del Re

di Franco Esposito

La storia dello sport la scrivono i campioni, quelli che rubano le prime pagine ed i sogni, che fanno battere il cuore, che ti prendono e rapiscono le  emozioni, che strappano una gioia ed un dolore. Poi ci sono, come li ha chiamati Emanuela Audisio nella sua prefazione a “Dentro i secondi” di Franco Esposito e Dario Torromeo (Absoluteli Editore) i Sancho Panza dello sport, quelli che gonfiano i sogni altrui e li rendono materia, che danno concretezza alle imprese e fanno nascere romanzi sportivi strepitosi.

Sono i campioni nell’ombra, invisibili ma determinanti, quelli che accendono la miccia dei grandi talenti. In seconda fila ma indispensabili. Una volta fra il primo e secondo tempo Gianni Agnelli scoprì con grande sorpresa Michel Platini con la sigaretta in bocca. Tranquillo, disse le Roi, l’importante è che non fumi Bonini: è lui che deve correre. Sono passati gli anni ed ora deve correre anche Michel. Il re ora è nudo. La commissione elettorale della Fifa si è pronunciata a Zurigo. E ha dichiarato idonei per la candidatura alla carica di presidente il Principe giordano Ali Al Hussein; Sheikh Salman Bin Ebrahim Al Khalifa; Jerome Champagne; Gianni Infantino e Tokyo Sexwale. Platini è fatto fuori.

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Bonini e Platini

Casco d’oro, il maratoneta. Capelli lunghi al vento. Fluente zazzera oscillava e danzava al ritmo della sua corsa frenetica, scomposta. Lunghi capelli biondi che a volte veicolavano il pensiero a un’immagine indimenticabile. La criniera color pannocchia di un cavallo leggendario, il trottatore Tornese. Il sauro volante da Balboa, la madre, e stranamente con due padri: Pharaon, per qualcuno; Tabac Blond quasi per tutti.

Correva a perdifiato, galoppava, Massimo Bonini, il biondone di Città di San Marino, lo straniero d’Italia. Nazionalità sanmarinese, quindi buono per il calcio italiano solo a livello di rappresentativa under 21. Nove presenze e zero reti. Il gol non rientrava nelle sue corde di centrocampista di corsa e impeti. Il maratoneta che correva per Michel Platini, praticamente in esclusiva. Le roi, il re, e il suo maggiordomo. Formidabile rifinitore ed esecutore, il fuoriclasse francese amava ricevere l’attrezzo sul piede. Oui, merci. Bonini, il postino maratoneta, recuperava palloni e li smistava a Platini. Il francese raccoglieva, accarezzava l’attrezzo e lo trasformava in oro. Michel re Mida. Il gregario maratoneta consumava l’esistenza di calciatore correndo in ogni zona del campo e strappando palloni agli avversari. Prego, Michel, anche questo è per te.

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Platini, Bonini doveva correre per lui

Una vita di corsa, ma che vita è nella parte di maggiordomo del re? Platini era in campo un gran rompiglione. Un elegante rompiscatole con quella erre gentile, mujè, molto francese, ovvio.  “Rompeva, non potete immaginare quanto, ma in maniera costruttiva. Voleva vincere”. Un tormento continuo, Platini. A tratti, un’ossessione, anche in allenamento, tutti i santi giorni. Ma anche così era un bel vivere, assicura Bonini, oggi più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il maratoneta erede di Furino. Il centrocampista di corsa e di rottura, il postino al servizio del francese famoso, prestigioso, decisivo. Attaccante proprio no, Michel però segnava più reti degli attaccanti. “Michel era esigente, pretendeva. Normale, direi. Quando sei alla Juve, non basta vincere. Bisogna convincere. Noi abbiamo stracciato tutti, abbiamo stravinto, non solo vinto”.

Scavallava, casco biondo, galoppava. Il fiato di uno struzzo, il serbatoio sempre pieno, un pozzo senza fondo. Correre era per lui mestiere e dovere. Stakanovista doc, i polmoni di Platini. Lo schiavetto del francese, a ben vedere. Roi Michel non si preoccupava di minimizzare, preferiva chiamare le cose con il loro nome. Anche quando discuteva della Juve con l’avvocato Gianni Agnelli. Un acuto osservatore, il signor Fiat. Grande ironia e battute fulminanti.

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Le roi e l’Avvocato

“Ma come, Michel?”  “Prego, avvocato”. Il dialogo nello spogliatoio. Gianni Agnelli e Platini nel ventre dello stadio comunale di Torino, tra un tempo e l’altro.  “Michel, cosa vedo? Un atleta come lei fuma nell’intervallo”. Platini con la sigaretta tra le labbra. Poco più in là, seduto,  sudato, affaticato, Massimo Bonini. La salvietta per asciugare il sudore da fatica. Michel gli scaricava una gran pacca sulla spalla e riprendeva ad aspirare  forte dalla sigaretta. Una lunga tirata.  “Avvocato, l’importante è che non fumi Bonini, è lui quello che deve correre”.

Avrete capito quale valenza attribuiva Michel Platini all’operato del maratoneta Bonini, sanmarinese di Serravalle, una delle sette curiaze della Repubblica di San Marino. Il piccolo stato in terra d’Italia, poco più di quattromila abitanti, sette chilometri di superficie, seicentocinque metri sul livello del mare. Manuel Poggiali, motociclista, lo sportivo più popolare. Campione del mondo nella classe 125, il simbolo calamita dell’affetto del popolo sanmarinese. Il più amato, Manuel Poggiali, con Massimo Bonini appena una linea sotto, titolare a sua volta di parecchie onorificenze. Selezionatore della nazionale di San Marino, un anno e tre mesi da condottiero, lui l’attendente di Michel Platini ai tempi delle corse negli stadi del mondo.

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Platini e Bonini, ricordi d’oro…

Otto partite da commissario tecnico durante le qualificazioni ai campionati del mondo del 1998 in Francia. Il maratoneta faceva correre anche l’amicizia. Platini, nel rapporto, non inseriva mai la grandeur. Però era esigente in campo, come si conviene ai veri campioni. “Rimproverava tutti, non gli andava mai bene nulla. Chiedeva palla, la voleva, pretendeva il passaggio perfetto. Un formidabile stimolo, per me e gli altri”.

Roi Michel comunque mai arrogante, tampoco volgare nella richiesta di servirlo come prete all’altare. Buoni amici, lui e Bonini. Ricordi anche teneri, momenti di vita, che il maratoneta sanmarinese rammendava e ricuciva spesso dopo aver lasciato la postazione e il calcio giocato. “Quando lui andava via per ricongiungersi con la nazionale francese, si era ospiti in gruppo a casa sua. Benetti, Caricola, io: quelli che non erano sposati. A cena dalla moglie di Michel, madame Christel”.

Platini e Bonini, a volte, riempivano il tempo libero giocando a tennis. Il mediano sapeva come usare la racchetta, colpiva la pallina con sicura maestria. Non avesse sfondato nel calcio, avrebbe abbracciato la carriera di tennista. Sognava di diventare maestro di tennis. Giocava bene, davvero. Ma con l’amico Michel spesso non si raccapezzava. Platini lo mandava ai matti e lui finiva nell’abbraccio subdolo della crisi. Il fuoriclasse lo sorprendeva, inventandosi lui maratoneta con la racchetta in mano. “Un pallettaro, Michel. Giocava d’astuzia. Il primo set lo vincevo io, 6-1, quasi sempre. Poi mi sfiniva a furia di pallonetti, smorzate, lob, alla fine vinceva lui, il maledetto”. Si divertivano con poco, un paio ore di scambi sulla terra rossa, in palio l’aperitivo.

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Bonini, il maratoneta

“Nessun fastidio, mai a disagio quando sentivo dire che correvo per Platini. Pensavo al ruolo, il mio ruolo. Quello di mediano è il più bello in assoluto”. Bello il ruolo perché il mediano è nel cuore del gioco. Bonini si riteneva addirittura “centrico”. I palloni passavano spesso dalla sue parti e lui ne intercettava in quantità industriali.

Massimo Bonini straniero in Italia. “Una cosa stranissima, tenevo molto a giocare con la nazionale italiana. Ma tengo altrettanto al mio stato di cittadino di San Marino”. Nazionale italiano under 21 sotto Azeglio Vicini, il tecnico romagnolo rossiccio con le lentiggini, competenza e umanità. La rottura nell’82 al torneo di Montecarlo. L’Italia schierava Marco Macina, giovane calciatore sanmarinese del Bologna ritenuto all’epoca più forte addirittura di Roberto Mancini.

5ea120c4537937c5912ab1b16a7a23dc-80248-1338801389Reclamarono le altre nazionali, la presenza in campo del ragazzo è fuorilegge. “Non è un calciatore di passaporto italiano”. Interveniva l’Uefa: immediato il cambio del regolamento. Bonini e la nazionale italiana non si sarebbero più incontrati.

La Juve popolava i sogni del futuro maratoneta fin da ragazzo. I poster dei suoi eroi juventini affollavano la cameretta dell’abitazione dei Bonini, a Serravalle. La sua nazionale, ai tempi, ancora non esisteva. Una roba mai nata. San Marino non aveva una federazione, non aveva giocatori, niente. Solo dilettanti appassionati, calciatori da strada e da oratori.

Bonini è Romeo Benetti giovane. L’etichetta,  impegnativa e appiccicosa, era opera di tecnici fantasiosi,  interessati alle precoci prestazioni di Massimo Bonini. I calci del novizio apprendista alla Juvenes, la squadra della parrocchia del suo quartiere. Primo allenatore don Peppino, il parroco dell’oratorio. Quattro anni, poi in Romagna. Bellaria, Forlì, e l’incontro con Arrigo Sacchi, romagnolo di Fusignano. Il futuro vate, che alternava allora la passione di allenare con il lavoro di giovane direttore della fabbrica di scarpe del padre.

Arrigo Sacchi ai tempi del Rimini

Arrigo Sacchi ai tempi del Rimini

A Bellaria giocava un giovanotto destinato ad una brillante carriera di comico. Gene Gnocchi detto “Moviola”. Tecnicamente bravo, ma lento nei movimenti. “Una mezza punta con le controindicazioni del caso”, puntualizza Arrigo Sacchi nell’autobiografia, spargendo gocce d’ironia. Il presidente del club, a fine campionato, riusciva a trattenere Sacchi, dimissionario. “Ma come? Io le ho portato un grande giocatore. Grande davvero, mi creda: l’ho visto giocare in parrocchia”. E dove, se non alla Juventus, la squadra di don Peppino il parrocchiano? Parlare di un grande sembrava comunque un esercizio piuttosto azzardato. “Il ragazzo era indeciso, tennista o calciatore? Adesso vuole fare il calciatore. L’ho pagato una muta di maglie. Il giovanotto vale”. Quel ragazzo era Massimo Bonini, diciotto anni. Avrebbe corso presto incontro alla notorietà, il calcio professionistico in prospettiva. L’orizzonte si presentava niente male dal giorno dell’approdo a Cesena. Una cospicua scuola di calcio.

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Giampiero Boniperti, il mito

Mitico libero dell’Italia vice campione del mondo a Messico ’70, un cerebrale nel rettangolo di gioco, Pierluigi Cera telefonava a Giampiero Boniperti, un giorno sì e l’altro pure. Il presidente della Juve, fine intenditore, invitato a fare un salto in Romagna.“Vieni a Cesena al più presto, ti aspetto, cena pagata”. Boniperti si precipitava, mosso dalla marea di aggettivi che Cera era uso abbinare al giovane Bonini. “Dammi retta, sarà più forte di Furino”. Bonini, a Cesena, andava a lezione da un autentico maestro di calcio. Osvaldo Bagnoli, milanese della Bovisa l’insegnante ideale ricco di argomenti tecnici. “Io alla Juve? Ma no, dicevo a me stesso, non è possibile. Vicino a Zoff e a una serie di campioni veri, io che a diciassette anni giocavo nei tornei dei bar?”.

bonini (4)Otto anni di Juve, con Madame una lunga storia d’amore. Una formidabile emozione attraversata da duecentosettantasei partite ufficiali e cinque gol. A scandirla con suoni squillanti tre scudetti, la Coppa dei Campioni impoverita dalla tragedia allo stadio Heysel, una Coppa Italia, la Coppa delle coppe, e la Coppa Intercontinentale.

Platini non avaro di complimenti, di tanto in tanto. Il maratoneta a centrocampo con Tardelli. Sulla sinistra, la tecnica, la velocità, il senso del gol e quanto di meglio era in grado di esprimere Cabrini. La bellezza e l’efficacia del gesto. Cabrini s’incazzava di brutto, gli mostrava il pugno per richiamarlo. Rompeva anche lui. Critico quando il maratoneta Bonini si prendeva qualche libertà. Eccessi per non lasciare troppo solo il suo Re. Oppure quelle volte che arrivava sfinito dal gran correre in prossimità della linea di fondo e commetteva peccati nel cross. Traversoni sconci, sgrammaticati. “Alla Juve ogni partita era il mio esame di laurea. Si combatteva e si imparava lo stile del club, il gioco, l’arte di vincere”.

Silenzioso, non musone; un vulcano, Bonini, quando andava ad aggredire i dirimpettai e correva in ogni fazzoletto di campo. Dormiva alla grossa prima della partita, la tensione non gli apparteneva. E se montava, la scaricava in campo con poderosa energia. Paolo Rossi il compagno di camera a Villar Perosa. Giovanni Trapattoni l’istruttore provvisto di enorme semplicità e di massime tutte sue, piene di validi concetti, talvolta non perfettamente in linea con la sintassi. I luoghi comuni usati con meravigliosa efficacia. Il maratoneta prendeva il meglio, selezionava.

ITA: Juventus Training Session

Trapattoni juventino

“Mantenere il successo è più difficile di conquistarlo”. L’avvocato Agnelli a lui non telefonava mai. E non si capisce bene perché avrebbe dovuto: chiamava Trapattoni all’alba, mai dopo le sei, e spesso Platini in orari talvolta improponibili. Bonini ammirava l’Avvocato mentre lui  correva per il francese e si faceva un gran mazzo. “Un fine intenditore, l’avvocato. Persona molto intelligente, simpatica, alla mano. Uno spettacolo le sue visite, poche parole, belle citazioni. Chiamava le macchine Fiat automobili, sempre”.

Gianni Agnelli conosceva il calcio e soprattutto la vita. L’orologio sopra il polsino della camicia, l’abito firmato o il pullover di cachmere, l’aplomb. E un regalo per ciascun giocatore celebrativo della vittoria. Il pane e il companatico della Juventus. “Regali uguali per tutti. Come quel gran bell’orologio, un Patek Philippe d’oro con la sua firma e lo scudetto”.

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Gianni Agnelli e la sua Juve

L’avvocato Agnelli autorevole, solenne, elegante, e simpatico. Pieno di complimenti e di richiami, questi buttati lì con artistica nonchalance. Il suo modo di fare, di tenere delicatamente sotto pressione il gruppo della sua Juventus. La squadra del cuore, un inesauribile amore. “In albergo, ad Atene, manca poco alla finale di coppa campioni con l’Amburgo. Presento mio padre all’avvocato, che stringe la mano al mio genitore. Papà è stato sul punto di svenire, quasi gli viene un mancamento”.

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Ferrara e Bonini

Correva il maratoneta con la faccia butterata, dava l’anima in campo. Esagerati i tifosi, esigenti pazzi e inumani i giornalisti se gli avessero chiesto anche di realizzare gol. Cinque, appena cinque, a conclusione della meravigliosa cavalcata con la Juve lunga otto anni. All’Inter il gol più bello di Bonini. “Di sinistro, il mio piede debole. E palla all’incrocio, giusto nel sette. In porta c’era Walter Zenga, non so se mi spiego”. Duro, tosto, deciso nei tackle. Illegale lui negli interventi a sradicare il pallone all’avversario? Deciso e punto, come testimonia l’unica espulsione sofferta in carriera. Il maratoneta buttato fuori dall’arbitro Casarin. I derby con il Torino erano partite diverse da tutte le altre. “Espulso per non aver commesso il fallo. Dossena lo scorretto, mi aveva mollato un pestone. Ho detto semplicemente: ma io che cavolo c’entro? Una cantonata di Casarin”.

Il debutto in Coppa Campioni nell’81, a ventidue anni. Avversario della Juve il Celtic, la titolata squadra dei cattolici di Glasgow. Ventinove maggio 1985, il maratoneta, attonito e disperato, doveva frenare la sua corsa. Si bloccava con la Coppa Campioni tra le mani, alzata nel cielo di Bruxelles.

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La drammatica serata dell’Heysel

La tragedia allo stadio Heysel. Una serata di morte. La Juve affrontava in finale il Liverpool di Dalglish il rosso,  Rush il gallese e di Grobbelaar, il portiere dello Zimbabwe titolare di una vita da film.  “Un sogno vincere la Coppa Campioni, ci tenevo tantissimo. Sì, l’ho vinta. Ma quella vittoria per me non sa di nulla”. Disgustato, amareggiato, oggi come allora, trent’anni dopo. Trentanove tifosi morti nell’infame settore Z dell’Heysel, lo stadio cimitero. Trentadue erano italiani. Una tragedia assurda. Sì, un omicidio di massa.  “Una struttura fatiscente, l’Heysel. Inadatta, non idonea per una finale di coppa campioni. Le tensioni tra tifosi nel centro di Bruxelles lasciavano intuire che non sarebbe stata una serata tranquilla”. Lo stato d’allerta allo stadio. La situazione precipitava di minuto in minuto. L’Heysel sembrava scoppiare da un momento all’altro, scosso innanzitutto dai tifosi inglesi pieni di birra e alcol, nel settore Z. Calma, gente. Ma erano appelli inutili, vuoti per orecchie che non volevano sentire.

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Scirea e Bonini, il dramma dell’Heysel

Scirea e il capitano del Liverpool con un foglietto di carta in mano: il messaggio da leggere ai tifosi, agitatissimi. “Sapevamo della situazione particolarmente difficile, al limite. Ma non che ci fossero anche i morti. Era questa la nostra sensazione in quel momento. Penso che la scelta di giocarla, quella maledetta partita, sia stata la cosa più opportuna. Però…” Però cosa? Quella coppa, per Bonini, non sa di nulla. Parole sue, di senso opposto, esattamente contrario alle dichiarazioni postume alla conquista della coppa Intercontinentale a Tokyo. “Il trofeo più bello, vinto in un’atmosfera molto particolare. Fuori del mondo”.

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Bonini, il maggiordomo

Di assi del calcio ne ha incrociati tanti. Geniali, funamboli, draghi dell’estro, califfi della fantasia. Quasi tutti. “Maradona il top, il numero uno. Poi, Zico. Falcao il più difficile da marcare. Giocava molto senza palla, era imprevedibile. Il gioco diventa infatti meno complicato quando una la tiene e la porta. Gli prendi il ritmo, puoi prevederlo”. Un passaggio a Bologna, da capitano, e nei quarti di finale di Coppa Uefa. La manifestazione avara di soddisfazioni per lui, quand’era alla Juve. La scaramanzia non lo riguarda, mai usata come antidoto o rifugio. Gli incoerenti odiati con tutte le forze e con le armi a sua disposizione.

Scapolone, Bonini? Eterno fidanzato, preferisce definirsi tale, e così gli va di lusso. Il maratoneta ha azzerato il contachilometri, ma non per ripartire nel calcio. La Juventus, gli scudetti, le coppe le corse a beneficio di Platini, l’Avvocato, Zoff, Cabrini: tanti ricordi, quasi tutti belli.

452194262041-Massimo-BoniniLa felicità è ora. Basta calcio, niente più panchine, allenare non gli interessa punto. “Felicità è vivere felici, impostando la propria vita. E la felicità la devi cercare e conquistare”. Il maratoneta è diventato negli anni riflessivo. Persino saggio. Mai più corse a perdifiato ad inseguire palloni e avversari. Massimo Bonini collabora con il papà titolare di un’impresa edile. Si occupa di case il nobile portamattoni di Michel Platini. “La serenità è dentro la felicità, la alimenta, contribuisce a completarla. Penso sia importante non essere mai negativi”.

Giusto che lui corresse tanto, per due o per tutti, o solo per Platini? Ma non è che gli altri facessero flanella, proprio no. Semplicemente il calcio è questo, un gioco e uno sport mai giusto. “La giustizia non c’è, non esiste. Dovremmo però cercare di essere tutti più equi”. La meravigliosa utopia di un maratoneta.

 

 

 

 

 

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