Franco Esposito

Franco Esposito

Giornalista e scrittore, inviato speciale de Il Mattino e del Corriere dello Sport. Presente a cinque edizioni dei campionati del mondo, 106 volte inviato al seguito della nazionale italiana di calcio e 34 viaggi negli Stati Uniti per i grandi appuntamenti di pugilato, Vincitore del Premio Coni 2011 e un record: tre finali consecutive al Premio Bancarella Sport

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Alfredo, Alfredo

di Franco Esposito

Alfredo Martini oggi avrebbe 95 anni.  Il gregario-leader. Scudiero generoso e puntuale di capitani esigenti, irripetibili, immensi, è stato alle dipendenze dei più grandi. Bartali, Coppi, Magni. Poi nella seconda vita nel ciclismo come commissario tecnico dell’Italia ha vinto sei titoli mondiali.

  La casa del saggio. Una villetta su due livelli e mezzo, al civico 7 di via Giusti, a Sesto Fiorentino, nove chilometri da Firenze. Quarantanovemila anime. Al cancello d’ingresso, un oleandro gentile tenuto con cura e competenza da giardiniere. Una decorazione a sovrastare il campanello: due ruote di bicicletta con i  raggi in ferro battuto. E la scritta, Martini. Semplice, niente svolazzi. Qui abitava Alfredo Martini, il vate mai arrogante, oracolo ciclistico mai superbo, neppure un filo presuntuoso. Sensazionale gregario nella sua prima vita nel ciclismo.

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Alfredo Martini

La casa dei genitori a Calenzano, posto di campagna, botteghe, officine. Novemila abitanti tra Firenze e Prato. Papà Fortunato detto Pietro e mamma Regina, che non sapeva scrivere né leggere. Donna però eccezionale. Temperamento, carattere, intelligenza, saggia come sarebbe diventato poi il figlio. Una tosta: mani ignote l’avevano depositata neonata nella ruota dell’ospedale degli Innocenti, a Firenze. Una grande lavoratrice, portata via in maniera brutale da un perfido male a quarantadue anni. Classe 1921, l’Alfredo incontrò la prima bicicletta a sette anni. Il giorno della sua festa di compleanno. Una bici nuova e su misura, bella da impazzire, acquistata nel negozio dell’artigiano Francioni. Una Francioni color argento, il regalo di papà Pietro. Un dono impossibile, al padre costò quattrocentoventi lire. Il genitore, operaio fuochista alla Ginori, guadagnava centottanta lire a quindicina. Quattro i figli di Pietro Martini. Artemisia, Amando e Alfredo, come il fratello morto piccolissimo per malattia. Imposti da papà Martini, i nomi dei rampolli iniziavano tutti con la lettera A. Un vezzo o che cosa? Pietro Martini riferiva ai curiosi richiedenti di aver pensato ad un lusso. L’unico che la famiglia poteva permettersi in quei difficili anni di miseria e fame,

Alfredo Martini nel 1955 al Giro d'Italia con Fausto Copp

Alfredo Martini nel 1955 al Giro d’Italia con Fausto Copp

Un savio vero, a ventiquattro carati, l’Alfredo. Un ogdc, origine denominazione controllata, che faceva di tutto, con naturalezza, per non apparire tale. Il maestro di ciclismo e di vita titolare di una storia unica. Impeccabile gregario quando correva in bicicletta, libero docente di nomina universale nelle mansioni di commissario tecnico. Scudiero generoso e puntuale di capitani esigenti, irripetibili, immensi, è stato alle dipendenze dei più grandi. Bartali, Coppi, Magni.

Martini Alfredo servo nel tempo di tre padroni. Dodici squadre frequentate da professionista. Primo in una tappa al Giro d’Italia, la Salsomaggiore-Firenze, al Giro di Svizzera, al Giro del Piemonte e dell’Appennino. Quel giorno in fondo ad una fuga che non finiva mai, lunga duecento chilometri, e l’intervista al vincitore venti metri dopo la  linea del traguardo. Un biondino con penna e taccuino il giornalista, evidentemente alle prime armi. Era Mario Fossati, il prospetto di un fuoriclasse del giornalismo, a quell’ora. Baciato da talento e classe, diventerà fenomeno col tempo. “Il ciclismo è favola impura” è un’espressione sua, estremamente sintetica,  molto bella.

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Martini e campioni del mondo

Sei titoli mondiali alla guida della nazionale d’Italia campione del mondo sotto la sua direzione tecnica. Capolavori di diplomazia: con lui in ammiraglia sparivano primi attori litigiosi e campioni invidiosi obbligati a convivere per il bene della causa e della bandiera. L’Alfredo bravissimo a smussare le asperità interne, a domare con parole appropriate e occhiate  opportune, le voglie, quando smodate e plateali, dei numerosi pretendenti al ruolo di capo branco.

Un campione di tatto. Parole e fatti, mai chiacchiere a vuoto. Il parlar chiaro a tenere le bizze e i bizzosi fuori dal club Italia. Il gruppo in conclave, un cenacolo, mai un forum, il giorno prima del Mondiale. Tutti per uno o per due, secondo necessità, quando lo starter abbassava la bandierina e dava inizio alle danze. Si corre per l’Italia, non per sé.

img_6496Il gregario eletto a condottiero. L’amore per il ciclismo gli esplodeva dentro al Giro del ’28, nella tappa Pistoia-Modena. Amici più grandi di lui lo portarono a vedere il passaggio della corsa in cima alla salita delle Croci di Calenzano. L’Alfredo trovò poetico e bellissimo il gesto tecnico di Alfredo Binda, regale nella postura in bicicletta e maestoso nella pedalata. “Come un’apparizione. La maglia iridata addosso a Binda come un paramento sacro”.

In sella alla prima bicicletta, la Francioni color argento su misura, si avventurava fino a Pistoia. Aveva fegato l’Alfredo.  “Mi sembrava di aver doppiato Capo Horn. O di essere arrivato a Kathmandu”. Le scuole alte non le aveva frequentate, ma come cultura mostrava di non essersi fermato ai verbi irregolari. Come studentino non gli era mai piaciuta la matematica; gli garbava l’italiano. E leggeva libri, tanti. Le sue visite alla biblioteca popolare comunale erano autentici saccheggi. Victor Hugo per cominciare, “L’ultimo giorno di un condannato a morte”. E Steinbeck, Cronin, Conrad, Sciascia, Pasolini. “Viaggiavo sui libri, non potevo permettermi i viaggi veri”. Jack London e Hemingway“La parole di Hemingway hanno la forza dei pugni di un peso massimo”.

Maniaco dell’ordine, preciso nelle sue cose, il materiale per andare in bicicletta e i suoi famosi taccuini di appunti. Scrittura allineata, non una riga fuori posto, in bella calligrafia. Il vezzo della perfezione. Taccuini gonfi di testimonianze, suggerimenti, giudizi, indicazioni. Il testamento ciclistico di Alfredo Martini. Mito e leggenda, gregario da manuale e commissario tecnico da applausi.Pestando forte sui pedali, lui e gli amici una volta si spinsero fino a Prato a vedere un film di Tarzan.  “A Sesto non li proiettavano mai”. L’Alfredo era questo, semplice, diretto, incisivo. Ospitale e generoso, si concedeva senza veli. Nelle sue interviste non c’era traccia di mediazione, mai una falsità, una bugia magari solo innocente.

231247282-94247267-91ae-4ea6-ab6d-Quando passi da Firenze, non privarmi della tua presenza. Ti aspetto a casa mia per un caffè, non mancare, mi raccomando”. Si andava da lui con immenso piacere e grande leggerezza. Liberi, felici di ascoltarlo e di rubargli schizzi di saggezza. Martini lo spontaneo con quelle sue rughe che ne attraversavano la fronte e il viso. I segni degli anni che lui dimostrava di non sentire, fresco e lucido di testa. Si lasciava la casa del saggio carichi di cose nuove, ogni volta pieni della sua meravigliosa semplicità.

Noi non abbiamo nulla. Abbiamo soltanto la dignità, alla quale teniamo molto”, diceva a Elda, promessa sposa  dell’Alfredo. A lei stava benissimo.La giovane si era presentata a casa Martini per parlare del matrimonio imminente. Aveva scoperto che il padre del suo moroso imponeva ai figli di leggere. La famiglia viveva di poco, ma il genitore voleva che in casa due cose non dovevano mai mancare mai: l’olio buono e il vino. Pietro Martini rischiava la pelle solo a respirare quello che veniva fuori dai forni della Ginori. Aiutante barbiere, a tredici anni, l’Alfredo insaponava barbe a Sesto Fiorentino. Non gli piaceva punto. In officina o in fabbrica si entrava a quattordici anni, non prima. Il papà faceva di tutto per tenerlo lontano dalla Ginori. Al figlio parlava della silicosi e dei rischi per la salute.  “Te lì non ci vai”. Allora dove? Al Pignone, apprendista meccanico al compimento dei quattordici anni. Settantacinque centesimi allora, in fabbrica ci andava in bicicletta da passeggio e con il pentolino di stagno riempito delle cose che gli preparava la mamma. Due fette di pane, un pezzetto di burro, cinquanta grammi di marmellata di more, un’arancia e una mela.

03-00019782h_mediagallery-page“Ascolta, napoletano mio”, che sarei io. “Mi facevo bastare tutto. Forte e felice, mi sentivo un re”. Due anni al Pignone, poi militare di leva in Marina, a La Spezia, addetto alla manutenzione delle attrezzature sportive della Marina e dell’Esercito. Suo commilitone Eusebio Castigliano, mediano leggendario del Grande Torino finito nel disastro aereo di Superga.

E lui, ai tempi, già conosceva a memoria un canto della Divina Commedia. Il trentatreesimo dell’Inferno. “La bocca sollevò dal fiero pasto/ quel peccator, forbendola a’capelli del capo/ ch’elli avea di retro guasto…” Ancora cittino, si confrontava in bicicletta con ragazzi più grandi di lui. Faliero Masi di Sesto Fiorentino, ventisette anni, il più forte. Correrà anche il Giro d’Italia. Lavorava come meccanico alla Campistrini, un vero artista.

A Campi Bisenzio, Firenze, nel ’36, il debutto di Alfredo Martini, con la maglia dell’Unione Operaia Luigi Ganna, in onore del primo vincitore del Giro d’Italia. Quindici anni, categoria aspiranti. In testa sotto lo striscione del Gran Premio della Montagna, al Passo del Grillaio, a Montelupo, si aggiudicava il premio di cinque lire. L’equivalente del costo di un pasto al ristorante. La Welter, premiata fabbrica di bicicletta, aveva scoperto Alfredo Martini corridore in un referendum promosso dalla Gazzetta dello sport.

Martini fra Giulio Bresci (alla sua destra) e Luciano Maggini (alla sua sinistra) compagni di squadra nella Welter,

Martini fra Giulio Bresci e Luciano Maggini della Welter

Gianni Agnelli presentava in quei giorni la Fiat Topolino. Jesse Owens, il lampo d’America, conquistava quattro medaglie d’oro ai Giochi Olimpici di Berlino, facendo incazzare di brutto il Fuhrer. Il ragazzo di colore aveva dominato quelli di razza ariana. A Berlino il bagno d’oro anche per l’Italia, sul podio più alto con l’ostacolista Trebisonda Valla, in arte Ondina. Polvere e romanticismo, strade sterrate e bestemmie d’autore, l’Alfredo e gli altri correvano con il tubolare di scorta a tracolla. Il futuro gregario a segno, vincitore nel ’36 a Settignano. Una vittoria in solitudine è già tanta roba.

231247282-94247267-91ae-4ea6-ab6d-4691290acfc8“Una cosa incredibile”. Dodici vittorie gli fruttavano un guadagno di milletrecento lire. Più soldi di quelli del papà che lavorava ai forni della Ginori. Il momento storico a Scandicci, alle porte di Firenze, in borgata Padiglione. L’attimo fuggente da ricordare. Volata a due, l’altro è Fiorenzo Magni. Primo Martini, che da quel giorno non avrebbe battuto mai più Magni. Diventeranno compagni di squadra all’Associazione Ciclistica Montecatini. Si ritroveranno poi sotto la stessa bandiera da professionisti. “Avversari, Fiorenzo ed io? Amici e compagni di squadra, quando lui ancora non era una grande firma del ciclismo. E mi diceva, al primo fosso dammi un colpetto sulla spalla, così cado e torno a casa”. Si telefonavano tutti i giorni, per anni. Perfetti alleati. “Tra noi due, mai una parola storta, mai. Neanche mezza.  Ci volevamo bene, onesti entrambi, e l’onestà non ha colore. Mai fatto politica, nessuno dei due”.

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Fiorenzo Magni e Alfredo Martini

Martini riteneva Magni un inventore. Ex corridore e dirigente competente, soprattutto illuminato. Un precursore. Il salvatore del ciclismo con le sue sponsorizzazioni. Autentiche botte di vita, ossigeno puro, per lo sport delle due ruote. “Intelligente, fermo, coraggioso, saggio. Anche da corridore, certo. Il coraggio di rinunciare alla maglia gialla al Tour del 1950. Un meraviglioso atto per non attentare all’unità tricolore. Ascolta, non distrarti”.

Distrarmi io? Impossibile interrompere il collegamento diretto col grande saggio e appisolarsi un tantino magari nell’abbiocco fatale del dopo pasto. “Il Ghisallo, per Magni, era il loggione di un teatro. E sul Ghisallo, che guarda il lago di Como, ha voluto il museo del ciclismo. Sai cosa mi diceva sempre, davanti ad un bicchiere di rosso o a un grappino?”. Ti ascolto, vai pure avanti, nobile grande Vecchio. “Correvo con quei due, Coppi e Bartali. Diavoli veri, non finti, e li ho inseguiti per tutta la vita. Siamo sinceri: nella mia carriera non potevo fare di più”.

Alfredo, Alfredo, e Bartali e Coppi. Capitani anche loro di Martini, gregario, attendente, secondino. Mansioni svolte con generoso trasporto, animo nobile, correttezza assoluta. “Gino Bartali? Mai conosciuto uno resistente come lui. Mangiava più di tutti, ma alle 21:30 voleva essere a letto. Dormiva poco, beveva vino, fumava tabacco. Fisico incredibile e inattaccabile, mai che si sia lamentato del freddo o del caldo. Sulla distanza di trecento chilometri non avrebbe avuto avversari”.

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Fausto Copp

Coppi, ai tempi, guadagnava venti milioni in tre anni. Un po’ meno Bartali e Magni. “Fausto mi voleva bene. Ti va qualche aneddoto?”. “Dacci dentro, Alfredo, non risparmiarti”. Fuori tutto, altrimenti non vedo perché avrei dovuto sorbirmi un viaggio per venire a casa Martini.

Si andava a Reggio Calabria, il Fausto in vagone letto, noi umani in seconda classe, per risparmiare. Toglievamo il sellino della bici per paura che ce la rubassero. Fausto mi convocò nel suo compartimento. Intorno a lui giornali e riviste inglesi e francesi. Sapeva parlare in francese, voleva migliorare l’inglese”. Coppi invitava Martini a stare con lui una mezzoretta. L’Alfredo rimase con Fausto fino al mattino.

Tour de France 1952, Alfredo Martini in basso con gli occhiali scuri con Gino Bartali

Tour de France 1952, Alfredo Martini con Gino Bartali

Martini approdava alla partenza del Tour del ’52 indebolito dalla tenia. Aveva tolto il verme solitario da poco e non l’aveva detto a nessuno. Quinta tappa, da Roubaix a Namur, una caldissima giornata. “Chiedo a Fausto se ha sete. Sì, e tanta, risponde. Ma nella mia borraccia non c’è più un goccio d’acqua. È solo un cucchiaino, fa lui. Io, pieno di vergogna, vado a nascondermi in coda al gruppo”. Un’autopunizione o che cosa? Coppi non dava all’Alfredo il tempo di pensare. Scivolava in fondo al gruppo e gli allungava una borraccia piena di acqua fresca fino all’orlo. “Me l’ha data Carrea. Prendi, è per te, me la renderai quando starai meglio. Un campionissimo anche come uomo”.

Alfredo Martini e Ubaldo Pugnaloni al Velodromo Appio di Roma

Alfredo Martini e Ubaldo Pugnaloni

Martini staccava la licenza di corridore professionista nel ’41. L’esordio al Giro di Lombardia. La squadra prendeva alloggio all’Hotel Touring, in centro, a Milano, e a lui sembrava di vivere un sogno, in mezzo a marmi, stucchi e lampadari di Murano. Rovinosa caduta lungo la discesa del Ghisallo lo costringeva al ritiro.

Tanta roba alla Sanremo, primavera del ’42. La fuga da lontano in combutta con Piero Ferrari e Alfio Leoni. Ventre a terra, neppure il tempo di pensare al rifornimento. L’Alfredo non ritirava il sacchetto dei viveri a Savona. I morsi della fame lo aggredivano nel finale di corsa. Ormai senza forze, sfinito e annebbiato in vista del traguardo, lui e gli altri agguantati e mollati in tronco da Coppi, Bartali e Bini.

Ventitreesimo all’arrivo, ma una foto grande così su “Sport Illustrato”. Il piacere della notorietà. Il ciclismo professionistico di Martini. La sua università sotto Alfredo Binda, il primo docente. L’Alfredo tutto sentimento, il culto profondo dell’amicizia, coltivata con cura maniacale, mai sottoposta al gioco degli alti e bassi. Enrico Villa, massaggiatore, confessore, psicologo. Diventerà il suo impeccabile chaffeur alla guida dell’ammiraglia della nazionale italiana.

SPO0911-26-kkjH--652x458@Gazzetta-Web_mediagallery-pageDodici anni insieme, Enrico Villa al volante, l’Alfredo nel sedile del navigatore. Stipendi zero, soldi non ne ha mai chiesti e nessuno si è mai preoccupato di dargliene. Dalla Federazione solo rimborsi delle spese vive. Il grande saggio ometteva persino di aggiungere lo scontrino della colazione e il conto dei giornali. Cinque quotidiani al giorno. E le riviste specializzate e l’Equipe, voce sportiva della Francia. Posseduto da dolce ossessione, voleva essere informato su tutto e di tutti. Faceva parte della sua insuperabile maniera di lavorare.

08-olycom_352-288Un cittì totale, a trecentosessanta gradi, ogni giorno dell’anno, l’ex gregario Martini di Sesto Fiorentino. Il titolare di un solido teorema, il suo. “Di soldi non avevo bisogno. Il ciclismo mi aveva regalato serenità, soddisfazioni, buoni guadagni. Non avevo inseguivo i quattrini”. L’Alfredo e le sue due vite, la doppia corsa da gregario e da commissario tecnico. La sensazione di pace raggiunta nelle sue quiete parole e nei sorrisi sazi, mai sguaiati. “Dal ciclismo ho avuto questo, lo vedi? Il negozio di abbigliamento maschile, scarpe comprese, che ho aperto a Sesto Fiorentino nel 1951. E via via, una Topolino, la 600, la 750, la 1100, poi la Lancia. Infine la Fulvia. Una macchina da gran signore”. Una cartolina postale lo spingeva nelle braccia dell’ambascia.

unGiorni di tumulti interiori, la testa piena di dubbi. E un sospetto: cosa vogliono da lui i signori magistrati del tribunale di Firenze? L’Alfredo chiamato a testimoniare sui fatti di Valdibona, luogo di una battaglia ideologica. Un partigiano ci aveva rimesso la pelle, l’ex pugile Lanciotto Ballerini. Fiorenzo Magni, il suo amico Fiorenzo, al centro delle indagini, sospettato di chissà cosa.

L’Alfredo va in bici in Corte d’Assisi, chiamato a testimoniare con Gino Bartali.  “Feci il mì dovere, secondo coscienza. Fiorenzo l’ho conosciuto sempre come persona perbene, ligio alle regole del vivere”.  

La guerra era finita, non la fame e neppure la miseria. I bombardamenti e il fascismo alle spalle, rivedeva Fiorenzo Magni al Giro del ’46. Il piano Marshall sarà varato a distanza di mesi, e lui si acculturava intanto sui grandi personaggi di quell’epoca: Hitler, Churchill, Mussolini, De Gaulle, Fermi, Roosvelt, Mao, il Mahatma Gandhi, Francisco Franco, Enrico De Nicola primo presidente della Repubblica Italiana, e una delle persone più importanti del secolo, secondo Martini. Walt Disney, il genio benefattore dell’umanità, amava ripetere.

tumblr_mjhtfhDbYG1qzjl0ro1_400“Eccoli, i due fratelli”, dicevano dell’Alfredo e di Fiorenzo, insieme alla Wilier Triestina nel ’48, al tempo della liberazione dall’occupazione militare e dell’esplosione di nuovi fermenti. Guadagnava seicento lire al mese, Magni cento. E già potevano principiare a mangiare meglio, mangiavano carne.

Si ritrovava in ammiraglia dall’oggi al domani proprio grazie all’amico Magni. Un suggerimento di Fiorenzo alla Ferretti, prendete lui, è in gamba, vi troverete bene. Alfredo Martini direttore sportivo, il debutto al Giro di Sardegna. Sceglieva di inserire in squadra il velocista padovano Giuseppe Beghetto, olimpionico della velocità. E tutti a canzonarlo: che ti aspetti da Beghetto? Sei grullo, Alfredo. Infatti, vince Beghetto. Grulli siete voi, andate a prenderla in tasca.

Professione gregario, professionista lucido e puntuale in ammiraglia. Un condottiero silenzioso, mai una mossa sbagliata, un gesto fuori tempo. Gosta Pettersson, della schiatta omonima, tre fratelli corridori professionisti, guidato alla vittoria finale al Giro d’Italia del ’71. Uno svedese maglia rosa, pensa te. La revisione della storia.

imageParlava con i tempi giusti, il saggio Alfredo. Letteralmente ti avvinghiava a lui con i suoi meravigliosi racconti. Mille episodi, aneddoti gustosissimi, storie di vita e di corse. Si andava al tempio della saggezza in comitiva ristretta, quasi sempre per un caffè e un bicchiere di vin santo ad innaffiare sublimi biscotti fatti in casa. Genuini come era lui. Il signore dei gregari.

Ne ho corsi un’infinità di Giri d’Italia. L’emozione più forte nel ’46. Parigi bombardata, niente Tour quell’anno. In Italia la questione Trieste. Armando Cougnet e Vincenzo Torriani, i capi dell’organizzazione del Giro, volevano che il Giro arrivasse a Trieste. Gli americani la presero come una provocazione”. A Pieris, quarantuno chilometri al traguardo, i corridori si ritrovavano sotto una tempesta di pietre. In lontananza, i soldati di Tito non smettevano un istante di sparare.  “Torriani convinse un corridore per squadra. Verso Trieste proseguirono in diciassette. Un trionfo del ciclismo e dei corridori”.

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Giulio Andreotti e Vincenzo Torriani

L’Alfredo, la bicicletta, il ciclismo. Riflessioni postume di un saggista con il mezzo meccanico conservato intatto in garage e l’ammiraglia nella rimessa, fino a quando è rimasto in vita. Martini testimone, missionario, profeta del ciclismo. “Il ciclismo non viene mai a noia, senza non potrei vivere. Andare in bicicletta fa bene al corpo e all’umore. La bici è sorriso. Merita il Nobel della pace”.

Frase di enorme peso l’ultima, consegnata da Martini a Marco Pastonesi, giornalista della Gazzetta dello sport. Lo scrittore l’ha inserita nel libro “La vita è una ruota”. Delicata descrizione della vita di Alfredo Martini raccontata da Martini.

Il grande saggio era una miniera. Il suo scrigno traboccava massime. “La bici è più di uno sport, è un bene sociale”. Andavi da lui, al tempio della saggezza, e facevi collezione di massime. L’Alfredo ne regalava a bizzeffe, frasi sue e di uomini illustri e non celebri. Magari solo famosi, comunque maestri di vita anch’essi. “La vita è come andare in bicicletta: sei vuoi stare in equilibrio devi muoverti”, di Albert Einstein.

Albert Einstein

Albert Einstein

E Gianpaolo Ormezzano, cantore del ciclismo e dei corridori, non solo un ottimo giornalista e una penna di classe. “Il ciclismo è la fatica più sporca addosso alla gente più pulita”. La pennellata di Bruno Roghi, un sommo del giornalismo. “Binda dava carezze alla pianura e prendeva a morsi i monti”. Bruno Roghi, il sommo, non lesinava articoli celebrativi del lavoro di Martini. “Alfredo, Alfredo”, il titolo che il meraviglioso cantore dei ciclismo gli dedicò sulla Gazzetta dello Sport, in prima pagina. Un privilegio riservato a pochi, solo ai migliori esponenti di questo sport eletto a favola popolare.

Il ciclismo come oggetto di discussione, litigi e sfide. Stramba, originale, e non saprei come definirla con parole giuste, la corsa del ligure Luigi Malabrocca alla conquista di una maglia del Giro. Una maglia non rosa, però, e neppure bianca o verde. Nera, a distinguere l’ultimo della classifica generale. Una corsa nella corsa la sfida per la maglia nera. Un film tra il comico e l’avventuroso, talvolta decisamente grottesco. Storie del 1946 e dintorni.

Luigi Malabrocca   maglia del Giro

Luigi Malabrocca, la maglia nera

Luigi Malabrocca il massimo interprete. Ligure di Tortona, soprannominato il cinese per gli occhi a mandorla di taglio appunto orientale. Settimo di sette fratelli, centotrentotto vittorie in carriera. L’ultimo per definizione al Giro d’Italia, la maglia nera più famosa della storia. Difendeva il privilegio a rovescio con incorruttibile tenacia e formidabile determinazione. I trucchi se li inventava tutti, per essere ultimo ogni giorno e al traguardo finale del Giro.

Magagne talvolta comiche. Sembravano tratte dai film di Stanlio e Ollio, Laurel&Hardy in inglese. Espedienti talvolta malandrini per fare quattrini. Pagava, e come se pagava, la maglia nera. Il vicentino Sante Carollo il rivale più agguerrito di Malabrocca nella corsa all’ultimo del Giro. Anche lui un gran figlio di buona donna, nel senso che s’inventava di tutto per non finire la corsa davanti a Malabrocca.

I tempi di Martini, Magni, Bartali e Coppi erano anche questo. Luigi Malabrocca maglia nera del Giro al Giro del ’46 e del ’47, a cinque ore, cinquantadue minuti e venti secondi dal vincitore Fausto Coppi. Cinquantesimo dei cinquanta corridori che avevano terminato la corsa. Duecentottantamila lire il guadagno realizzato dall’incredibile corridore che in gara si divertiva, ovviamente per interesse, a pedalare spesso al contrario e a fermarsi e nascondersi. Sante Carollo non doveva mai sapere dove si fosse cacciato.

Sante Carollo

Sante Carollo indossa la maglia nera

Duecentottantamila lire messe insieme con le offerte dei tifosi destinate all’ultimo della classifica finale. A Malabrocca non riusciva il tris consecutivo. Nel ’49 gli andava tutto di traverso. Una serie di scorrettezze tra lui e il popolare Carollo nell’ultima tappa. All’arrivo a Milano il giudice del Giro assegnava la maglia nera a Carollo. Il meno scorretto di due scorretti. Reclamava Malabrocca, ma il giudice, all’istante, ne respingeva le giustificazioni e il ricorso. Quella volta l’aveva fatta troppa grossa.

Alfredo aveva incontrato Elda per caso, in tempo di guerra, nel ’42. E se ne era innamorato al primo sguardo. Complice il signor Bruno, un suo accanito tifoso impiegato a Firenze, all’Istituto Geografico Militare. Elda lavorava alla Richard Ginori, addetta al museo. Rincasava dal lavoro con una ragazza anche lei di Sesto Fiorentino. “Passavano sotto casa mia, ci adocchiammo, Elda ed io, e ci piacemmo. Il fidanzamento maturò in bicicletta, noi a pedalare affiancati in visita ai parenti di lei”. Il matrimonio e la luna di miele. La neve davanti all’uscio di casa spalata del tutto come regalo di nozze degli amici. Liberata la strada, il viaggio di nozze poteva cominciare. Semplice e breve, da Sesto a Firenze. Pranzo e cinema. Un piccolo albergo a Montecatini, che agli sposi sembrò una reggia. Trentasei ore in tutto. E la Milano-Sanremo ormai vicina, alle porte. La figlia Silvia nasceva mentre lui era in gara al Giro dell’Emilia. L’annuncio in corsa e all’arrivo Fausto Coppi primo, Bartali secondo, Martini terzo.

01-olycom_352-288Ventuno anni di corse, quanto sarebbe bastato per coprire svariate volte il giro del mondo. Vitaccia e insieme vita bella e la certezza di non poterne farne a meno. Della bicicletta. Decenni pieni di capitani da servire e del piacere di pedalare. Alfredo Martini smetteva di correre nel ’57. Ma non perché non avesse più voglia di gareggiare e la forza di farlo. L’Alfredo privato di ogni energia, messo a terra da un bicchiere di latte bollente riscaldato a vapore dal banconista al bar della stazione di Arezzo. Una foratura irreparabile, per dirla nel gergo ciclistico. Stomaco e apparato digerente in subbuglio, quel bicchiere di latte bollente aveva causato un’ulcera duodenale. Ormai, per la bici, c’era spazio solo nel garage di casa.

Schiena dritta, un uomo verticale, alto e magro, il commissario tecnico della nazionale italiana Alfredo Martini. Le spedizioni ai campionati del mondo preparate con cura, studiate nei dettagli, mai una sbavatura. Capolavori con il marchio di fabbrica.

Saronni a Goodwood, Inghilterra

Saronni trionfa a Goodwood, Inghilterra

Duecento metri alla velocità di un missile. Una gemma la fucilata di Beppe Saronni a Goodwood, Inghilterra. All’Alfredo quella fucilata gli era rimasta negli occhi e nel cuore. “Mai vista una volata così”.

Meravigliosa tenaglia italiana ai campionati del mondo di Varese. Ritenuta invincibile alla vigilia, l’armata spagnola finiva stritolata dal micidiale congegno costruito da Martini. Quattro italiani in corsa per la vittoria nel gruppetto lanciato verso il traguardo. La concorrenza con gli occhi puntati su Bettini, il grillo d’Italia due volte campione del mondo. Giocava d’anticipo Ballan, coperto e protetto dalla forza e dall’unità della squadra inventata dall’Alfredo. Il veneto campione del mondo per distacco. Solo una questione di secondi, ma più che sufficienti per invitare la fanfara dei bersaglieri a suonare l’inno di Mameli.

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Il mondiale di Ballan a Varese

Il discorso di Martini celebrativo della vittoria? L’ode del commissario tecnico che dirigeva la nazionale con l’autorevole umiltà e spirito di servizio del gregario? Niente discorsi, solo una poesia. Colto, non istruito, il semplice sanguigno Alfredo Martini sceglieva di affidarsi per la celebrazione ai versi di Garcia Lorca, sommo poeta spagnolo. “La sposa infedele”, poesia bella e profonda.

Un trionfo. Maestro del controllo, fedele all’aplomb, smarriva quarti di compostezza quando gli parlavi di doping. Alfredo Martini si opponeva con la forza delle parole ai mercanti di veleno.

Si rivolgeva ai corridori, tutti suoi figli. Spargeva ammonimenti, li invitava ad ascoltarlo, a fare tesoro dei suoi consigli di vecchio, grande saggio. “Il ciclismo non è e non deve essere doping. I corridori che si lasciano tentare e praticano le scorciatoie tradiscono innanzitutto se stessi”. Dettava massime, l’Alfredo, e citava esempi. Invitava i peccatori a seguirlo e agli altri a non cadere in tentazioni. “Pensate a Pietro Mennea, il più grande atleta italiano, un esempio di serietà, tenacia, amore dell’allenamento e del sacrificio”.

Franco Ballerini    due volte sul traguardo della Roubaix.

Franco Ballerini due volte sul traguardo della Roubaix .

Perdeva la moglie Elda e gli moriva Franco Ballerini, il Ballero vincitore due volte sul traguardo della Roubaix. Come un figlio per lui. L’amato suo erede sull’ammiraglia della nazionale. Perdite pesanti, irreparabili. Presidente onorario della federazione ciclistica italiana, però non smetteva un attimo di cantare odi alla bicicletta e ai corridori.  “Il ciclismo è conoscere se stessi, insegna a capirsi, a capire, e a riconoscere il valore degli altri. È fatica da poveri”.

Ambasciatore del ciclismo, ha dato a questo mondo tutto se stesso. “Forse era poco, ma era tutto quello che avevo”. Martini meraviglioso altruista, gregario e commissario tecnico al servizio de ciclismo. Una nobile persona.  E’ morto a novantatre anni, lasciando un vuoto incolmabile. Da quel giorno, 25 agosto 2014, ci sentiamo  orfani della sua saggezza e della sua infinita umanità di gregario e di commissario tecnico.

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Gimondi porta la bara di Martini

Grato, mi inchino. C’era il mondo al suo funerale. Empio di riconoscenza, ammirazione, commozione. Corridori, ex corridori, dirigenti, giornalisti. All’amico giornalista Franco Calamai, fiorentino come lui, suo ammiratore e confidente, narratore delle gesta e testimone della leggenda dell’Alfredo, amava ripetere. “Abbiamo il dovere di ringraziare i giovani d’oggi che fanno ciclismo. Ringraziali di aver scelto il nostro magnifico sport, con tutte le distrazioni che hanno e le scelte a loro disposizione. Il ciclismo è sport duro, non uno scherzo”.

E c’era pure Davide Cassani, moderno gregario di molti capitani, oggi commissario tecnico della nazionale italiana di ciclismo.

Davide Cassani

Davide Cassani

All’Alfredo aveva chiesto udienza per domandargli se poteva prendersi l’ardire e accettare l’incarico. Faentino cresciuto a Solarolo, il paese del ciclismo, neanche un semaforo e neppure una rotonda, conosciuto nel mondo come il luogo dove è nata Laura Pausini, Cassani riceveva l’investitura proprio dal grande saggio.

Martini lo aveva abbracciato, l’uomo giusto sei tu. Un monumento, l’Alfredo dei nostri cuori. Era nato sotto papa Benedetto XV. Un uomo di fede, come Bartali e Magni.

“Dentro i secondi” di Franco Esposito”

 

 

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