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Il boss dei Bossi

di Manuela d’Alessandro

A casa Bossi si parla poco. Non si spiegherebbe altrimenti come sia possibile che in due processi distinti, ma con lo stesso tema, le versioni di papà Umberto e dei figli risultino così diverse. Il punto è quello delle spese personali per false lauree in Albania, multe e altro che sarebbero state sostenute coi soldi del partito. Accusa per la quale Riccardo Bossi, il figlio maggiore di Umberto, ha scelto di essere processato col rito abbreviato, mentre il senatur e Renzo ‘Trota’ Bossi sono a giudizio con rito ordinario

Il pm Paolo Filippini ha chiesto la condanna a un anno di carcere per Riccardo, che avrebbe dilapidato  per scopi privati 160mila euro del Carroccio. “Ma lui non sapeva di prendere denaro del movimento politico – ha affermato nell’arringa l’avvocato Agostino Maiello –  Li chiedeva al segretario Francesco Belsito (ndr il tesoriere, anch’egli a processo) e alle segretarie perché non riusciva a parlare  col senatore. Un po’ perché Umberto era sempre impegnato, un po’ perché con lui aveva rapporti complicati. Come tutti i primogeniti, dopo la separazione ha preso le parti della mamma e col papà parlava solo di fatti di natura economica. E comunque le spese che lo riguardano erano autorizzate dal padre. Riccardo non è complice di quanto emerso in questa indagine. Ha solo chiesto aiuto in un momento di difficoltà economica, ma non sapeva che il padre quei soldi li prendeva dal partito”.

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Renzo, Umberto e Riccardo Bossi

Per il primogenito pilota di rally, quindi, papà sapeva di foraggiarlo tramite i segretari del partito. Ma è lo stesso padre, tramite l’avvocato Matteo Brigandì che lo difende dall’accusa di truffa, a smentirlo: “Bossi non si è mai occupato di soldi ma solo di politica. Non sa neppure quanto costa un chilo di pane”. A confermarlo, sempre in questo processo, è stata anche l’ex contabile della Lega, Nadia Dagrada: “Bossi doveva essere messo al corrente delle spese di famiglia perché ne era all’oscuro e dissi a Belsito che dovevamo parlargliene”.

Poi, c’è la terza versione, quella del giovane Renzo, che invece nega di avere mai prelevato euro dalle casse di via Bellerio e precisa di essersi pagato di tasca propria multe e cartelle esattoriali. E la laurea a Tirana? “Di quella non sapevo proprio nulla”.

 

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