di Carlotta D’Amato
Bruxelles- Tre mesi dopo, nel cuore dell’inferno. Dopo gli attentati kamikaze all’aeroporto e alla stazione della metropolitana in cui sono rimaste uccise 32 persone e più di 60 ferite gravemente. Nel centro di Bruxelles, a dieci minuti da Malenbeek, il cuore dell’odio
Bruxelles ancora non si è ripresa. Si vive nel terrore di nuovi attacchi e l’allerta è altissima. Si cerca di superare lo choc ma è palpabile che ancora non è così.
Appena una settimana fa, il centro commerciale City 2 sul centralissimo boulevard Jardin Botanique è stato evacuato e chiuso per ore per un allarme rivelatosi poi infondato. Un uomo, uno squilibrato, con una falsa cintura esplosiva ha telefonato alla polizia avvertendo dell’”imminente pericolo” ed è stato subito bloccato e arrestato.
La situazione è stata comunque presa molto sul serio dalle autorità belghe ed i servizi di sicurezza restano in stato di massima allerta. Il mostro e fra noi, Bruxelles vive così, con la consapevolezza che tutto è possibile. Sempre. Ovunque.
La capitale dei burocrati di stato, per lo più abitata da funzionari e impiegati presso le istituzioni europee, le ambasciate, gli organismi internazionali, di colpo ha scoperto la paura, ha perso quella spensieratezza che sino ad ora l’aveva caratterizzata.
E così nel pomeriggio, alla chiusura degli uffici, chiude anche la città, le strade prevalentemente vuota, pochi turisti, molte automobili che sfrecciano per le strade. Senza vita. La Capitale europea spegne le luci, e si ritira.
Non si vede tanta polizia in giro (e quando li incontri sono sempre tre-quattro insieme). Più frequentemente si incontra qualche gruppetto di militari armati, pronti ad entrare in azione. Ce ne sono anche all’esterno del mio albergo nella zona Nord della Città.
La Grand Place, il cuore della città, un tempo piena di turisti, ci saranno stati alle 19:30 di un giovedì di giugno una cinquantina di turisti ed altrettante per la strada che porta alla fontana Julienne, il Menneken Pis simbolo eroico della città.
Ceno in un bistrò francese vuoto nonostante sia giovedì e nonostante siano le 20:30. L’unico suono ad animare la città proviene da un pub inglese dopo si suona musica rock. Una volta, mi dicono, i locali erano pieni, gli euroburocrati potevano facilmente trovare distrazioni e compagnia. Ora è un mortorio. Ci si sente profondamente vulnerabili dicono gli italiani che vivono e lavorano lì. Gli unici a passeggiare per strada sono donne e uomini arabi.
Ripercorriamo i luoghi della strage. Ci avviamo verso l’aeroporto in taxi (il giorno dello sciopero dei mezzi pubblici ed il giorno di Brexit, ndr) ed improvvisamente le strade sono piene di auto; arriviamo all’aeroporto di Zaventem, proprio quello dell’attentato.
Il taxi ci lascia 200 metri prima nella zona degli arrivi; risaliamo a piedi passando da un parcheggio interno su più livelli e passiamo attraverso un capannone costruito ad hoc dove i militari dividono i passeggeri decidendo con un cenno della mano se farli o meno passare attraverso gli scanner. Il solito controllo dei bagagli, la scansione della carta d’imbarco e siamo alle partenze.
L’aeroporto è gremito e bellissimo. La zona nuova ricostruita in poco tempo. Ordino un caffè allo Starbucks, quello danneggiato dall’attentato, prontamente ricostruito e funzionante.
Centinaia di persone, migliaia, tanto che non si trova un posto per sedersi nemmeno nelle zone lounge. Bruxelles allora non è deserta, brulica di gente pronta a partire e a tornare, ad andare e venire. Brulicano solo le strade e l’aeroporto, le stazioni.
La paura si avverte, per ora. Si gira con circospezione, guardandosi attorno, girandosi indietro. Siamo al centro dell’Europa ad un’ora e 45 minuti da casa ma nessun posto sembra più lontano.
Tra i grattacieli di cristallo e acciaio di architettura ultramoderna, il silenzio delle strade, i negozi delle multinazionali, è qui che si decidono le sorti dell’Europa, di milioni di persone. Un’Europa sempre più ferita a morte. E Bruxelles appare sospesa tra la paura di andare avanti ed il coraggio di ricominciare.