di Adolfo Mollichelli
I sogni svaniscono all’alba di una contesa che è stata infinitamente lunga, vissuta con passione, orgoglio e delusione. Napoli fuori dalla Champions, eversore il Real dei galacticos, come trent’anni fa. I “quarti” della manifestazione europea che ti premia con la coppa con le orecchie restano un tabù. Vanno in fumo un bel po’ di soldini che non guastano mai. Pecunia non olet e figuratevi per Aurelio Primo che con accento romanesco si vuol far passare per napoletano nel salotto televisivo da lui trasformato in un cortometraggio (per fortuna) storico; da Masaniello a Cavour, magari sognando il prossimo cinepanettone dal titolo Natale nel Regno delle due Sicilie.
Usciti a testa alta, ha detto Hamsik. E ci credo, con quella cresta non sarebbe potuto essere altrimenti. Usciti, sostengo, perché questo Napoli bello e impossibile non riesce a stare in partita più di un tempo, di settanta minuti al massimo. Vizio di gioventù, forse. E perché il calcio che frutta non può essere figlio di teorie da ayatollah.
Sarri è maestro euclideo – triangoli e linee che si intersecano – e sostenitore convinto che dal drone s’impara. Tutto bene. Ma il calcio è fatto soprattutto di antiche conoscenze, di praticità.
Si può (si deve) marcare ad uomo nella zona quando nella squadra avversaria gioca un tipo come Sergio Ramos che è più decisivo di Cristiano Ronaldo l’impomatato quando la lotta si fa dura. Due calci d’angolo e flop, in sei minuti vanificato un primo tempo da putti ed amorini perché come hanno giocato gli azzurri si gioca solo in paradiso, forse.
E dire che il sempre-in-tuta aveva indovinato tutto, a cominciare dall’innesto di Allan che mi ricorda Sam Davis junior. Mertens, gran gol e un palo, di più non avrebbe potuto. Piuttosto, mi chiedo a che pro mandare la piccola saetta belga nel cuore della propria area a difendere sui calci piazzati. Ecco, questo è un mistero sarriano.
Sessantamila cuori (più altri milioni di muscoli pulsanti) che avevano creduto possibile – e lo era – l’impresa che non riuscì al Napoli di Maradona. Sessantamila ugole a far tremare le vene ed i polsi nell’urlo stupendamente terrificante a sigillare l’inno della Champions. Se fosse stato nostro contemporaneo, sono sicuro che Munch il suo Urlo l’avrebbe dipinto nel caleidoscopio del San Paolo.
Palazzo Caracciolo ha portato male. I galacticos si saranno sentiti investiti dal flusso della storia. Nel cuore della città a meditare i tempi della dominazione spagnola e non a perdersi nell’incanto del mare che bagna Castel dell’ovo e più in là N’albero che ora è triste e pure senza rami.
Mi chiedo se il Napoli avrebbe potuto fare di più, a cominciare magari dall’andata a Madrid. Credo di sì. Perché questo Real non m’è parso lo squadrone che tremare il mondo fa. L’avventura Champions termina qui. Si farà meglio il prossimo anno.
Squadra e tecnico da elogiare, comunque. Aurelio Primo il romano da condannare, senza se e senza ma. In nome di un campanilismo che sa di provincialismo (rima baciata). Si dice: azionare il cervello prima di parlare. A lui proprio non riesce.
Lui vuol fare il made in Sud. Contro il Nord. Un gioco perverso – e stupido – per ingraziarsi capipopolo e capibastone. Lui pretende che chi scrive del Napoli, sia anche tifoso del Napoli. Già accade Aurelio Primo.
Perciò la critica non è mai costruttiva. Lui non sa quanti colleghi “nordisti” amino il Napoli e ancor di più Napoli.
PS. Tutta la mia solidarietà al collega Mimmo Malfitano della Gazzetta dello Sport. Se vivrà altri giorni difficili nella sua Napoli – e mi auguro che ciò non accada – dovrà ringraziare il romano Aurelio Primo che forse si placherà quando gli innalzeranno una statua, magari a cavallo.