Marco Catizone

Marco Catizone

Avvocato, scrittore satirico e giornalista pubblicista. Scrive di politica, teatro e cultura su blog, siti e riviste on line.

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Marcello come here!
La “dolce vita” di Silvio

di Marco Catizone

Vent’anni son lunghi a passare, come carte in mano al baro, cinico destino, fugace canto: il Marcello è alla frutta, toccata e fuga, i cedri del Libano a svernare, mentre l’Elvis della Bassa, barocco e satiresco sgambetta deambulando nel tramestio d’un servizio sociale imminente: che poi è vero che le tragedie vanno in gloria ripetendosi in farsa. 

Marcello, came here

Marcello, Marcello come here

Popolare il Nostro lo è stato per diritto, costituzionalmente inscritto nella sua elicoidale costituzione, a guisa di genetica, più che genesi politica: un tempo il Bettino, è vero, ma poi il bottino me lo guardo da me medesimo, suvvia! Marcello, come here! C’è da fare affari, tra Bontade e bontà d’animo, che qui a Milano 2 siam generosi, diamo ricetto ed ospitalità a capitali e capibastone, massoni e mafiosi, e quando le prove Mangano, abbiamo il nostro stalliere che tiene il conto.

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SIlvio, Francesca e Dudù

Vent’anni dietro le spalle a contemplarci il culo moscio, con Sua Emittenza che lascia il solco, smolla l’aratro e cessa di seminar zizzania e vanagloria nel campo italico e in quello marziale. Nanoleone ha abdicato è vero, Nanoleone è immortale, immorale, risorge dalle ceneri del resort, con una stampella e Toti da lanciare, ma “Enricostaisereno”, che gli austroungarici son lontani, al massimo abbiamo gli australopitechi italici da babbiare, che siam sempre in tempo, non si sa mai, oppure. Oppure che il ballo sia finito, la musica sfumata, la gnocca tramontata? Mon Dieu, Dudù pensacitu!

renzipotlapietra11”Donne è arrivato il Renzino! Donne, venite et accorrete, che il Renzino viene, riforma e va!” Arriba arriba il Salvatore, a via del Nazareno, a vender l’olio alla Patria per meglio approntare supposta, Renzi Uber Alles, con sporta di cubetti e ghiaccio da mettere sulle pudenda illividite, alla recherche d’un conforto, una mano santa, e fu lesta la sua mano, a coprire il sudario del berlusconismo al tramonto, delle spoglie il puzzo mortale, perché il disfacimento va velato, il gioco truccato, il Nano sempre più ghiacciato; e Napolitan Power dal Colle più alto benedice lo gnommmero renziano come un Bergoglio impenitente, ancor più lesto, monito in resta e pastina in brodo, a propinarci il Pittibimbo e le sue schiere. Di debiti, di interessi, d’asset spauriti, di finanze sgarrupate, l’alveo è ormai pregno, finanche ottuso: tracima, singulta, s’ammassa, ci scamazza…l’inverno del nostro scontento è qui, dai Monti scese la brina, a briglia sciolta, passando per un Letta a tre Piazze Affari, ad annunciar che “L’Italia è fatta, bollita, stracqua”.
E il Nano è alla finestra, Uomo che Guarda, con la Pascale badante, sbadata ad annodargli le braghe, un tempo calate. No, pardon, scusate, avi ed evi che s’affastellano, si fa confusione, s’era ritirato, come lemure sull’uscio, come mitile senza guscio, il suo Risorgimento è ormai stinto, come alba cianotica e sfatta. Massimo fu il nostro gaudio e giubilo, anche se costò, e quanto, cavar sangue dall’italiano medio, a suon di tasse ed esodati, esondati, e riti da bocconiani alchemici, e fu sollavamento: se non di plebe e gentaglia vile e lavoratrice, almeno di tassi e differenziali con la Deutschland uber palles, e gabbasisi, borse, indici, spread, spritz, sottomento e minigonne, e chi più ne ha, Minetti!

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Merkel 1

Animo gente, gli zombies son ancora invitti, in vita, le elezioni s’apprestano, scantonano, è per le poltrone che si scannano, per frattaglie di merletti in pizzo Frau Merkel, per brandelli di potere, lacerti di prebende, incarichi, scarichi, con la fogna appilata, a Pil raso; il bolo starnazza, è contrito, a metà strada: non sale e non scende, ci vuole un rigurgito o un rutto di Bossi buonanima, un ratto delle Sabine Began, un ritto sulla tolda, un retto nella bolgia, un dritto a Palazzo. E il Poeta che direbbe? Pasolini non ripete, ahimè.

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Ma piano col mazzo: chè le chiavi, come quello? Ah, no, e meno male: Pittibimbo le chiavi le tiene in saccoccia, è suo adesso il regno, lo scrigno, il capitale, la Capitale. E ci resterà almeno quella, o dovremmo venderla alla Totò, come quel catino di Trevi, o alla Treviri, come Marx e i suoi fratelli, collettivizzando gli utili? Adda venì Barroso! UE, UE, e sono singulti fastidiosi, moniti quirinalizi e vagiti striduli nella culla d’ ‘o PD: oppure rischiamo la sindrome post-natale… ma almeno ci arriviamo a Natale? E il Nano che c’azzecca?

Il treno Italia è definitivamente deragliato, chiedetelo all’indispensabile Moretti, o al Belciuffino di Montezemolo, che la stazione è giusta, ed è solo la prima della Via Crucis: i mercati son generali, comandano e s’agitano come in borbonica ammuina; comma 22, legge ai pazzi, è la somma dei titoli che fa il totale, non il dettaglio, il consumo, la massaia di Voghera, anzi. E dov’è il Principe per un popolo bue? Nella Stalla dei Chigi, mentre abbiamo deposto con rose e fiori il Menarca, l’omuncolo dal triangolo in testa, lo zio acquisito di Ruby nipote di Cicciolino, Lolito Silvio, prigioniero del più-sess-meno-stress, di Freud, degli anni ottanta, dell’iconografia tettonica e sederonica , ancora seduto al Drive In, a risentire le vecchie barzellette, a rimirarsi nello specchio, con le macerie sempre in conto nostro, vero ex Cavaliere? Forse che il barnum “Cavalieresco”, il lascivo spettacolo delle minne a cozzare con il machismo blando e femmineo dei cardinaletti, dell’ecclesia aurea e burocratica, del potere imporporato e sotto papalina sia lasso e vacuo, e in perdurante rotta?

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Renzi e Alfano

Renzi spariglia è vero, s’attacca a vinavil l’Angelino, sul tavolo la mano passa, le fiches si dimezzano, rimangono i domiciliari con canillo al seguito e dominatrix neapolitana, oppure i servizi alle ottuagenarie groupies a brodaglia, per indigesta e melensa frattaglia di ricordi sbiaditi da ripetere fino all’ultimo rantolo, fino a che i vecchiacci non collassano, con bavetta a risucchio in caduta libera: sconti di pena stavolta no, sentenze che scantonano e cedono al giudizio, “perché tutto capita nelle sentenze” a sentir il Cazzaro da bar, e alla truffa, al falso, siam avvezzi, in bilancio ci stavano due Miinetti, un Formigoni, una Santanchè, il cranio di Sallusti e tutto il Ferrara che c’è, anche se è brut, come Ghedini, rinsecchito a fuscello, accanto al cliente, al padron, a controllar che nessun tocchi la “Robbba”! Che nessun magistra-gorilla l’afferri da presso scaraventandolo in gattabuia, dove neanche una grattachecca, forse solo qualche vecchia checca, ma siam poi sicuri che gratti, e se poi perdi, Cavaliere? Che la fortuna è cieca, mentre la sfiga…

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Berlusconi ad Arcore

No, no, Silvio, ho detto sfiga, con la “esse”; che è lunga, e alla lunga, stanca pure quella. A te giammai, caricato a molla; e molla l’osso che le aziende calano, i figli chiamano, pigolano, non hai più Fede, Fedele è vecchio e stanco, Marcello è fuggito, rimane il desco vuoto, e tu deambuli, sei in rotta; già, l’ernia del desco, bravo che un altro po’ ti slabbri di brutto, perdi audience, i colonnelli scalpitano, i delfini son cresciuti, gli affari languono, la pelle casca, il sedere è flaccido, e l’Ultima Cera avanza il conto, al Mausoleo di Harcore. Ma il Mestìa avrà (siam certi!) l’ultimo guizzo: pugnala Otello, accoppa Iago, tocca il culo a Desdemona, allarga il sorriso a tagliola, benedice l’apostolato mediatico riunito a sua congrega, alza il calice, cala l’ostia con tutto il purgatorio e canti annessi: cambia la marcia, trillano le trombe, il de profundis va in gloria e le salme son sempre lì, ad innestar la retro; e nel partito ancora qualcuno sogghigna e sbuffa, “va’ de retro, Silvio! Alla malora! Oste porta via i resti, che banchettar con carogne non compete!”.

Ma quanti ne ha visti passare il Nostro, quanti i sottopancia, i leccaculottes, gli smutandati, smandrappati, lenoni che ha allattato, che ha allevato in questo ventennio. Il Mestìa li conosce, li blandisce, li riconosce a fiuto, qualcuna al tatto, ma son figli ingrati, eppur Lui è generoso. Non li ha mai traditi, li ha solo comprati, son oggetti cari al suo modernariato da museo cerato.
L’ultima cera, l’ultima gag, prima di spegnersi lentamente, fulminato come tafano da cavo di corrente: perché l’Unto è lì, a cincischiare da sempre con parabole ed antenne, ma è vecchio ormai, troppi acciacchi e reumatismi. Non resse il vento, nè i lampi. Un problema maniacale ai lombi, e restò all’antenna, attaccato da scossa fulminante.
Assurgendo una volta e per sempre all’Etere Profondo.

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