Un bicchiere e un’asciugamani. Trentanove anni dopo, la morte e il mistero potrebbero finalmente tornare a essere illuminati da un raggio di luce, riportando alla ribalta quello che si credeva un caso chiuso per sempre.
E’ il delitto di via Caravaggio: una storia il cui finale non è mai stato scritto nonostante l’altalena di indagini, processi e giudizi che hanno (inutilmente) cercato di dare un nome e un volto al “mostro” che la notte del 30 ottobre del 1975 massacrò un uomo, due donne e un cagnolino in quell’appartamento trasformato in mattatoio. A volte anche gli oggetti parlano. In ritardo, ma parlano: e la verità che sono in grado di raccontare è quella che non è stata mai scritta.
Nel maggio scorso in Procura, a Napoli, arriva una lettera anonima. A spedirla è qualcuno che sa bene molte cose su quell’inferno di via Caravaggio e che – sebbene dopo quasi 40 anni dalla morte di Domenico Santangelo, ex capitano di lungo corso della Flotta Lauro, della sua seconda moglie Gemma Cenname e della figlia 19enne di lui, Angela – forse ha deciso di togliersi un peso dallo stomaco. Il suggerimento è preciso: “Indagate su due oggetti repertati: un bicchiere e una tovaglia intrisa di sangue…”.
L’allora procuratore aggiunto Gianni Melillo (oggi capo di Gabinetto del ministro della Giustizia Andrea Orlando) dispone così la riapertura del caso. Tutto avviene nel massimo riserbo, la notizia non filtra. E quando la Polizia Scientifica riapre gli scatoloni impolverati rimasti a marcire per quasi mezzo secolo nei depositi dell’Ufficio Corpi di reato – in un angolo delle segrete di Castelcapuano – quei due oggetti vengono portati nei laboratori di via Medina per essere esaminati.
Ricordiamo che per questo delitto fu indagato e processato un uomo: Domenico Zarrelli, giovane della Napoli bene e nipote della Cenname ritenuto all’epoca dal pm Italo Ormanni, che seguì il caso, come il responsabile di quel massacro. Non ci soffermiamo sui particolari, sul movente (il denaro), sui depistaggi e sull’inquinamento della scena del crimine volutamente modificata da abili mani e menti raffinate (i corpi senza vita vennero ritrovati ben otto giorni dopo la commissione degli omicidi); né ricorderemo la ridda di ipotesi accusatorie: prima confermate con una sentenza di Corte d’Assise che condannò l’imputato all’ergastolo e poi, dopo il consueto giro di processi, culminate con una pronuncia della Cassazione che rimetteva la palla al centro, ordinando un nuovo dibattimento che non si svolse più a Napoli, ma a Potenza, perché prevalse la linea del “condizionamento ambientale”.
Quel che conta è che Zarrelli è stato assolto con formula piena e anche risarcito dallo Stato per i danni morali e materiali subìti. Zarrelli è e resta dunque un innocente per la legge italiana.
Ma adesso c’è qualcosa di nuovo. Nel 1975 sarebbe stato impossibile anche solo immaginarlo: oggi la parola magica è “Dna”. Una prova che potrebbe mettere fine al mistero di una strage senza colpevoli. Perché – ragionano gli inquirenti – se le tracce biologiche nascoste sul bordo di quel bicchiere, come pure il sangue ormai raggrumato dell’asciugamani, non appartengono a nessuna delle quattro povere vittime (compreso ovviamente Dick, lo Yorkshire), allora il gioco si chiude e l’assassino è incastrato.
Oggi quel risultato c’è, ed è nelle mani di un sostituto procuratore. Per quanto clamoroso possa essere il responso – e possiamo garantirvi che lo è – sappiamo bene che a rivelare il finale della tragedia non debba essere un cronista, ma la magistratura. In un modo o nell’altro, ma pur sempre nel diritto-dovere di cronaca: perché la verità non può né deve essere mai nascosta all’opinione pubblica.
E tuttavia consentiteci di porre due domande. La prima: perché, nonostante la Scientifica abbia consegnato da mesi gli esiti del Dna, il risultato non viene divulgato?
Secondo interrogativo: chi si nasconde dietro l’anonimo che ha postato la lettera in Procura? E perché ha aspettato tutti questi anni, pur conoscendo i due oggetti che nascondevano l’identità del presunto carnefice?
Quando ci sono elementi nuovi è doveroso non solo riaprire le indagini, quindi bene ha fatto la procura di Napoli, ma poter rifare il processo e condannare il pluriomicida. Giuseppe Crimaldi è un ottimo giornalista che cerca solo di informare i lettori, spero possa continuare per dare finalmente giustizia alle tre vittime ed al povero Dick. Mi ricordo inoltre che le povere vittime all’epoca furono anche calunniate, si cercò di indagare nella loro vita privata per cercare ombre e fango su loro. Giustizia anche per la povera Angela uccisa nel fiore degli anni.