Marco Catizone

Marco Catizone

Avvocato, scrittore satirico e giornalista pubblicista. Scrive di politica, teatro e cultura su blog, siti e riviste on line.

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Belpaese all’ultimo stadio

di Marco Catizone

Ego non te absolvo, l’ultracafonal della sciatteria istituzionale preda delle lepidezze ferali da curva, del beluino che è in noi, della camurria che è fuori e dentro il coro, della bestialità espressa in ritmi da Italique e da stadio. “La violenza è la retorica della nostra epoca” (José Ortega y Gasset)

“La violenza è la retorica della nostra epoca” (José Ortega y Gasset)

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Primitivismo. Corrente trascendentale, da Walden imboscato, lontana dall’oasi del buon selvaggio, come rifiuto sistemico dell’oppressione intrinseca alla civilizzazione, sulla scia d’un radicalismo legato alla terra, rifiuto di politeìa civilizzante (troppo radicali le teorie di J. Zerzan), si propone la reconquista di libertà primordiali ispirate ad un modello di vita diaconico e morigerato, in sintesi simbolica con l’afflato nature e new age, un ritorno alle origini del pianeta uomo.
No, non s’adatta, non va bene.

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Primatismo, allora, e alla bisogna in quel d’Italique, e quanti et a iosa i primati dell’ovvio, nell’ubbia solenne, solerte, dell’esser fuori-gioco, fuori Stato, fuori dal consesso viepiù umano, schiavi del pregiudizio, dell’efferatezza, dell’odio tribalico da branco, paturnie apotropoiche, tra un sangue che si scioglie in divina ampolla, un razzo a botta esplodente in tribuna, ove Stato pose le sue terga, e da tergo prese il comando, schiavo financo del più scasciato commando: forse che si chieda l’ultraterreno per arrestare belfagor ammantato in sciarpa e maglietta criminogena e sovversiva, di più, schifosa?
Ego non te absolvo, l’ultracafonal della sciatteria istituzionale preda delle lepidezze ferali da curva, del beluino che è in noi, della camurria che è fuori e dentro il coro, della bestialità espressa in ritmi da Italique; quanti gli animal spirits da muta, ve ne sono a iosa, creature arboricole che sciamano da miseria in sciagura, senza protezione alcuna, al minimo fu Civile, dove un Bertolaso qualunque giunse a menare fendente finale, chiedendo il conto della serva, servendosi del nostro per appagar desideri e voglie, gettando il seme nel cantuccio, dove niente e nessuno preserva dal contagio, dalla sciagura in grande evento.

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Minimo sindacale (vero Matteuccio da Firenze?) per un Paesucolo affetto da satiriasi proteiforme, da sessuomanie callose e-patologiche (da farne morbo de fegato), da corruzioni incorruttibili, inscalfibili, da camurrie agnostiche ed agonistiche fino al triplice fischio, fino al tocco di mano, un fallo eretto a centrocamposanto, al dio denaro, quello sterco che tutto concima, come bava e lascivia agli angoli di bocca e pube (ah, Pasolini e la sua “ricotta”!); losche cariatidi in doppiopetto, che per Potere spacciano protervia, comando a gettone per foga libidinosa, per liturgie e passerelle di prosseneti e puttane, gaudenti e nausenti, pecoreccio aggradato al punto giusto, di certo degradato, ma questo è il Belpaese, “prima vedere cammello”, che il Politico ha fretta, a braccetto del magnaccia finanziario, del connestabile di turno, del corruttore indultato, degli ordini e dei disordini, della Digos che banchetta con la Carogna, dell’Eletto Ineletto, inetto lui e tutta la sua corte, giammai “stringendoci a coorte”, che schiava l’Italia, ammanettata al lettone, prima di Putin adesso chissà, Iddio la creò, a forma di Stivale ormai ridotta a mocassino, chè oramai dirupata a scapicollo nella gromma schiumosa, attenta alla fattura, bolla, malia, pronta a dichiarare sempre meno, ad esportare vergogna e mignottocrazia rombante per affari e capitali, come fossero pubbliche svirtù.

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Forse che sia solo la cum passio comune e sfrenata per beltà rotonda di sfera ampollosa, a scacchi, femminea nei guizzi e nello scazzo, coppa d’ambrosia per Olimpico singulto, ad aver attirato in loco, come sciame celifero, la creme de la creme d’Italique? Tutto Grasso che cola sulle miserie calcistiche, sulla violenza a magnitudo, sull’ignavia del Potente che s’inchina all’abbisogna, al cieco, ciclico, cilicio plebeo d’una sciarpa azzurra, viola, cremini o bianconera, a stringere la strozza, uno sparo nel buio d’un civismo morto in curva anch’esso, schiantatosi come proiettile tra l’angolo e la vertebra, incastrato nella colonna vertebrale d’un Paese svacantato e col fiato corto, una costola istituzionale staccatasi di netto con un calcio alla svilita dignità, per ultimo sibilo a crepitare sulle ceneri d’una liturgia ancestrale costataci la faccia, al nerofumo dell’ennesimo fumogeno, candelotto, bombolone, esploso nel silenzio assordante d’un’assenza di riflesso agghiacciante.

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Fin dall’alba della civiltà, gli uomini commerciano con quel che hanno sottomano di prezioso e in abundantiam, esportando il surplus dove ammanca e v’è carenza; i primitivi son pur sempre all’avanguardia, mentre i primati coltivano nequizia e vacuità, concime per terre moribonde, all’ombra di istituzioni in fiamme, tra un selfie ridondante ed un bastione in rotta, con le bandiere a brani, le truppe in ritirata ed i mores, oh tempora!, all’assalto perenne: il Caos salvato nel disordine, dalla pregnanza simbolica d’un ultras di malabolgia, astrolabio siderale nella fredda nottata d’un crepuscolo senza stelle. Un tunnel degli spogliatoi perpetuo e senza luce in fondo.

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Un pensiero su “Belpaese all’ultimo stadio

  1. dario

    grande Marco ” un proiettile incastrato nella colonna vertebrale d’un Paese svacantato e col fiato corto…” poesia .

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