Marco Catizone

Marco Catizone

Avvocato, scrittore satirico e giornalista pubblicista. Scrive di politica, teatro e cultura su blog, siti e riviste on line.

Festa, farina e forca 
 “Bella e mala” Napoli che si sfidano a pernacchie, e così sia San Genna…. 
di Marco Catizone

Festa, farina e forca

di Marco Catizone

“Napoli è un mondo di ombre proiettate su pareti degradate dove anche la pioggia si vergogna di cadere” (Giovanni Scafoglio).

Quale demone di libido, figlio d’un’ elite debordada in autoreferenzialismo prosaico vacuo ed insensato, deve furiosamente possedere (da tergo) le anime prave dei prosseneti imprenditoriali, delle mani-curie cardinalesche e porporate, dei cravattari incravattati, della borghesia partenopea e italica, margravia nel suo borgo medievale, ferma ai suoi riti, le quintane, le giostre i cavalli gli arazzi ed i blasoni pencolanti, per precipitarle nelle latebre d’un gorgo dilavante, che attira quel lacerto d’umana pietas verso l’inedia più nera?

Cimitero delle Fontanelle il Monacone

Cimitero delle Fontanelle il Monacone

Bagliori dei primordi, ove regressio cialtronesca di genti e marchi, istituzioni ed insegne, fece d’istinto impulsivo e medievale la vera natura dell’ esser in umano, tra flute, bollicine, salamelecchi e strette di mano, cravatte attonite avviluppate al gozzo, come caduceo spiritati per vescovile mistero, di faccette stolide e manine suderecce ben strette al ballon d’essay, insufflato ad hoc per elicoidale guizzo nel circo barnum dell’esserci per l’esserci, ignorando il senso ascoso delle salvifiche assenze, nella liturgia di un sacello cafonal-chic che riunì i migliori, gli Aristoi, i figli di Marinella nella baita marina d’un falansterio luccicante a banchettare d’idealismo, nel Royal Palce che dà su Place de Plebiscìt, rimestando il borborigma ascetico alla recherche d’una personale atarassia per addivenire al pieno distacco passionale, chè delle umane genti, a noi esegeti del moet&chandon, “nun ce ne frega ‘n cazzo”.

STATUA DI SAN GENNARO NEL CORTILE DEL MUSEO DEL TESORO A NAPOLI

San Gennaro

Rovescio speculare di medaglia, moneta sonante per spendita al mercato nero delle pulci, da farci in loco, sciacquettando i panni più sporchi nell’alveo del nostro avvilente cicaleccio psicanalitico, sul lettino d’un popolo cannibale, gentilesco e lazzaro, pronto a citarsi addosso, eccitandosi nelle sventure ed esaltandosi nella vergogna, smarrendo la bussola quando il limen dell’onda ci spinge oltre, sul baratro del nostro non sense, come fosse un cambio d’abito, un numero alla fregoli, un colpo dal cilindro: bella e mala Napoli che si sfidano a pernacchie, in cagnesco, perché incapaci di riflettersi a specchio, di giungere a sintesi, eterno Giano per correnti e reflui, lame a serraglio, per sfregiare l’intruso di turno, lo straniero in patria, da conficcarsi nella schiena, al primo vagito gemello; niente e così sia, ammén San Gennà.

Ultrà: a Napoli il giorno del lutto, incessante omaggio a Ciro

Il funerale di Ciro Esposito

Dis-valori moderni, eppure la nostra personale weltanschauung partenopea compressa, diaconica paratia che separa il Palazzo dal centro lunare della periferia, ha generato un inconscio limaccioso, sottobosco di non-civitas, ove gli impulsi tralatici, quel persistente principio edonistico, di piacere, si spinge furente a cozzar contro i paramenti funerei d’un ambulacro popolare, eco di pena e peana e litanie attonite al cospetto d’un giovane morto, vittima di mutrie da branco, statuario nel suo mediatico martirio, pianto da eroe pur non essendo combattente; o forse sì chissà, perché anche una sfida di piedi e palla può, in Italia, diventare una partita a scacchi col tuo destino scalognato, se la pallina gira e si ferma e ti colpisce al costato, dopo aver scarrellato e premuto il grilletto; e allora piangi e imprechi e t’afflosci, nella certezza che la teorica della consistenza dei vincoli sociali va a farsi benedire, e non c’è cardinalesca prece che tenga, che il tuo Baal, il tuo demone interiore è svilito, ingabbiato, ruggisce al cielo, azzurrognolo come un vessillo di croci, nel giorno più nero per Scampia, per la famiglia del morto, per Napoli ed il suo sgarrupato contado limitrofo.

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Caldoro, Vespa, la ministra Boschi e Marinella

L’assenza e il vuoto, il decadentismo decostruttivo di istituzioni dilavate a valle, telluriche enclavi aggrappate al civismo di popolo, alla sfinita richiesta di madre orfana di figlio, alle lacrime d’un territorio assediato, che comunque non cede al maelstrom, non disperde vincoli, valori, e rigurgiti, rifiutando inconsciamente l’ annacquamento della collettività di natura borghese, per una violenta catarsi, ribaltando il senso ed il canone, per onorare un ragazzo, una vittima, gridandone il nome, perché fosse ben serbato, al di là degli stadi e della retorica inutile del pianeta eupalla. Il demone che divora sé stesso è  ora alto-borghese, non più lazzaro, la fiera che sbrana la falsa concordia sociale, riemergendo dal subconscio per nutrirsi d’ostilità è tutta laccata ed inpernacchita, si annida nel décolleté gioviale del Ministro Boschi, nel ciarliero e linguacciuto eloquio di Vespa, il giornalista col neo intorno, nell’insipienza del potere politico del fantasma regionale impersonato da Caldoro, nelle mani sapide et cattolicissime di rosario del Cardina Sepe, e dei mille alfieri del made in Naples, che s’assiepano attorno a tutto quel che è “divorabile”,  e che attira: denaro, piaceri, vino e convivio, ossessivo e compulsivo dasein heideggeriano, in cui essere e tempo s’annullano sommandosi, per le elites vaporose che decantano il proprio tramonto, bramando al contempo l’appagamento di appetiti voraci, seppur abbelliti dall’ultimo vezzo, nel valzer finale con l’ultima “Marinella” attaccata al collo, come nodo scorsoio per condannati e morti di fama.

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