di Adolfo Mollichelli
C’è qualcosa di strano oggi nel mio sole calcistico. Non amo più “o Brazil”. Non la terra conosciuta, vissuta ed amata in un mese peregrino: da Recife a Fortaleza, da Belo Horizonte a Manaus, da San Paolo a Rio, da Brasilia a Salvador Bahia.
Non i suoi colori, gli strani riti, gli stridenti contrasti, i meninos da rua figli di nessuno e i ricchi che si spostano in aereo da un capo all’altro del Paese-continente, il calore della gente. Non la sua penetrante
letteratura che ha in Jorge Amado il figlio prediletto. Grazie per Teresa Batista stanca di guerre e per Dona Flor e i suoi due mariti. Capolavori assoluti.
Non amo più il Brasile del calcio. Che mi era entrato nella mente e nel cuore nel lontano ’58 e a me, ragazzino, dettò poesia e samba. Attraverso le movenze felpate di un dio mingherlino con un nome infinito: Edson Arantes do Nascimiento (insomma, Pelé).
Grazie a Garrincha, l’uccellino zoppo che fregava ogni marcatore con l’unica, identica finta: stai a guardare, vedi?, sembra che vada a sinistra e invece, hop!, volo sulla destra. Semplice, no? E ci cadevano tutti, sempre. Una volta, un difensore (non ricordo più il
nome) raccontò: sapevo tutto della finta di Garrincha, allora fa finta di qua e se ne va di là, bene lo frego io, non mi muovo e chiudo di là, lo, sistemo io! Uscì distrutto e imbambolato. Confessò: avevo preparato con la mente il contromovimento, niente da fare, quella finta t’incantava e ci cadevi. Come Ulisse incatenato all’albero della nave, vinto dal canto delle Sirene.
Ricordo il trionfo dei verdeoro contro la Svezia che pure schierava il
GreNoLi, Gren il professore, Nordhal il pompiere, Liedholm il maestro che non sbagliava mai un passaggio e una volta che capitò fu un ohhhh! Di meraviglia dello stadio intero. Fu quello il primo mondiale vinto dal Brasile. Ne seguiranno altri quattro. Pentacampeon, in attesa della sesta sinfonia. Da suonare in casa. Per dimenticare la beffa del Maracanazo, la coppa volata via incredibilmente nelle mani di Obdulio Varela, il sindacalista capitano dell’Uruguay di Ghiggia e Schiaffino.
Il passato come un bel libro da sfogliare. Ricco di emozione e di grande bellezza. Dove siete, dove vi siete nascosti, perché non nascete più? Djalma e Nilton Santos, Gerson e Rivelino, Tostao e Falcao, Ronaldo e Ronaldinho, Zico e Socrates, Cafu e Romario, Kakà e Jarzinho. E Vavà e Didiì? Dove siete, che macumba è mai questa?
Non amo questo Brazil che “deve vincere” in casa sua. Perché se no, Dilma corre il rischio di non rivincere le elezioni. Ma non è questo il punto, anche se… Il Brasile di Scolari è il più brutto e gretto che sia mai stato schierato in un mondiale. E’ la storia che si rovescia, che rinnega, va contro se stessa. Una squadra che si sviluppa sulla verticale Julio Cesar, David Luiz-Thiago Silva, Neymar.
E poi? Tutto il resto è silenzio. Ah no dimenticavo. C’è anche il lato B. Come definire altrimenti la traversa colpita da Pinilla il cileno cagliaritano allo spirare dei tempi regolamentari?
Le meches non fanno bene. Dani Alves sembra un lontano parente dell’esterno basso che vola alto nel Barcellona. Marcelo, che assomiglia a Ficarra (o è Picone, mi confondo sempre tra i due) e non certamente al devastante esterno basso che vola alto nel Real Madrid fresco di decima.
A centrocampo, il peccato originale. Anzi, i peccati. Li commettono un po’ tutti. Luiz Gustavo e Fernandinho, Willian e Ramires, soltanto un po’ meno peccatore Paulinho.
E Hulk, vogliamo parlare di Hulk che è grosso ma non è grande, il meno brasiliano dei brasiliani, che ha sì un gran tiro ma nulla a che vedere con la spingarda che Eder aveva nei piedi. Fred, poi. Un palo, ma lo sai che Astaire era tutto punta e tacco. E tu? A volte subentra Bernard, biondino. Che brasiliano può mai essere. Ma il massimo è Jo, lungo e nero. Chiamatelo Jo-Jo.
Quanto sei poco Brazil, che delusione! E tutti insieme mi fanno rabbia. Nelle proteste concitate ad ogni spintarella subita. Loro che spesso picchiano come fabbri e restano impuniti perché che mondiale sarebbe senza la squadra che “deve” vincerlo. Arroganti, simulatori, per nulla brasiliani.
La stella Neymar, esempio. E chi discute il suo talento? Colpi da bigliardo, tecnica, tiro felpato, velocità e tant’altro ancora. Ma una cosa devo dirtela, ragazzo fortunato designato quale erede di Pelé. Ringrazia il tuo Dio di non incontrare mai, un giorno, un Olarticoechea (chiedi a Maradona chi era) o uno Stiles o un Montero o un qualsiasi argentino o uruguayano incazzato.
Perché rischi di fermarti nel dolore. Vuoi sapere come dribbli quando
l’avversario ti è davanti e non puoi superarlo sullo scatto? Ancheggi e gli sbatti addosso e rotoli e rotoli e rotoli. E lui si becca giallo o rosso e tu ti alzi e riprendi a volare.
C’era stato un altro Brasile poco brasiliano. Quello che a Pasadena batté soltanto ai rigori l’Italia di Sacchi. Ma aveva fior di campioni come Dunga, Romario, Bebeto e, soprattutto giocava un calcio corale nel quale attaccanti e centrocampisti erano i primi difensori. Tant’è vero che la retroguardia in blocco subì il minor numero di sanzioni arbitrali. Il gioco, già. Che bisogno ha Scolari di darne uno se tanto si vince.
E allora avanti, scollati e nebulosi. Tanto qualcosa Neymar combinerà. E Dilma sarà felice, il popolo anche. E poco conterà che nello stadio di Manaus giocherà, a mondiale finito, una squadra di indios dell’Amazzonia. E qui ci vorrebbe Garcia Marquez. Io m’inchino e mi faccio da parte.