di Ottorino Gurgo
Non sappiamo se l’episodio sia realmente accaduto o si tratti di una delle “leggende metropolitane” che frequentemente si diffondono nel transatlantico di Montecitorio. Si racconta che un giorno, nella sua veste di segretario del Pci, Palmiro Togliatti si recò a far visita in un campo scuola di “pionieri”, organizzazione giovanile del partito.
Era il 1962. Massimo D’Alema aveva 12 anni. Fu incaricato di consegnare al “Migliore” un gran mazzo di fiori e di pronunciare un discorso di saluto. D’Alema parlò da par suo; un intervento così perfetto da indurre Togliatti a sussurrare all’orecchio del suo vicino:” Ma è un bambino o un nano ?”
Se non è vero, l’aneddoto è ben trovato. D’Alema bambino prodigio, allora ? No, piuttosto primo della classe. E questo “complesso del primo della classe”, “baffino”, come più tardi verrà soprannominato, se lo porterà dietro per tutta la vita, fino a sfiorare quello che gli psichiatri chiamano “l’egocentrismo patologico”.
Sia chiaro: D’Alema è certamente un politico di straordinaria intelligenza. Se dovessimo compilare una classifica degli uomini politici più intelligenti, non esiteremmo ad inserirlo nei primi posti. Ma il suo guaio è che di essere intelligente lo sa fin troppo bene e che, sapendolo, ritiene che sia un suo non contestabile diritto essere sempre e comunque il “number one”.
Dicendo queste cose non intendiamo tracciare un profilo di D’Alema (che richiederebbe lo spazio di un saggio), né tantomeno addentrarci in un’analisi – che risulterebbe estremamente complessa – della sua complicata psicologia. Quel che ci proponiamo, invece, è cercare di capire cosa ci sia al fondo della sua profonda avversione nei confronti di Matteo Renzi, così da fare di lui, all’interno del Pd, il leader dello schieramento che vorrebbe rimandare a Firenze il nostro giovane presidente del Consiglio.
Per cercare di essere chiari, è opportuno volgere per un attimo lo sguardo all’indietro e vedere quali siano stati, in passato, i suoi rapporti con coloro ch’egli riteneva si frapponessero alla sua scalata verso il vertice. Non fu esente dalle sue critiche neppure Enrico Berlinguer del quale, pure, si considerava l’erede, ma al quale non esitò a rimproverare, come ricordò Miriam Mafai nel suo libro “Dimenticare Berlinguer”, di essere stato probabilmente, almeno in parte, responsabile, per i ritardi del suo Pci, della crisi della Prima Repubblica.
Ma nei confronti di Berlinguer, D’Alema ha sempre mantenuto un sostanziale rispetto. Assai meno tenero è stato, invece, nei confronti di altri suoi compagni di partito, come Achille Occhetto, Walter Veltroni e Pier Luigi Bersani con il quale ora sembra aver trovato, sia pur strumentalmente, un accordo. Per non parlare di Romano Prodi, alla cui caduta dette un determinante contributo per succedergli a Palazzo Chigi dove, in verità, non brillò particolarmente.
Ora si è impegnato in una sfida all’ultimo sangue con Renzi al quale non perdona soprattutto due cose: l’averlo iscritto d’ufficio nell’elenco dei “rottamandi” e l’avergli preferito, per la carica di ministro degli Esteri della Ue, Federica Mogherini. Un affronto intollerabile per il “leader Maximo”.
Secoli e secoli fa, Eraclito avvertiva che “il carattere dell’uomo è il suo demone”; affermazione che s’attaglia perfettamente al Nostro e che induce a tristi riflessioni su come può andar sprecato un talento, un’intelligenza.