Giuseppe Crimaldi

Giuseppe Crimaldi

Giuseppe Crimaldi, 54 anni, giornalista, scrive di cronaca nera e giudiziaria per Il Mattino. Autore del volume "Napoli è servita" e coautore dei libri "Il Casalese", "Al mio Paese - Sette vizi, una sola Italia" e "Mafie". Dirige il sito della Federazione delle associazioni italiane antiracket la rivista online "Lineadiretta". Collabora come docente al Master di Giornalismo dell'Università Suor Orsola Benincasa.

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L’ombelico del mondo
Un cielo di piombo

Per capire. Per comprendere. Per raccontare. Essere israeliani, convivere con la morte. Il bioritmo vitale di un Paese “speciale”: l’Oriente che guarda all’Occidente, un Occidente trapiantato in Oriente. La vita di tutti i giorni. Che, comunque, non sarà mai come la nostra vita. Lo sguardo di un bambino. La gioia. L’amore. La fratellanza. Il futuro. Un reportage vissuto di Giuseppe Crimaldi.Flickr_-_Israel_Defense_Forces_-_IAF_Flight_for_Israel's_63rd_Independence_Day

Tel Aviv. Eternamente in bilico, Israele prova a ricominciare. Ha scritto Lev Tolstoj: “Per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttar via tutto, e di nuovo ricominciare a lottare e perdere eternamente. La calma è una vigliaccheria dell’anima”. Mai definizione fu miglior abito cucito su misura sulla pelle dello stato di Israele. Un Paese che credi di conocere e ti meraviglia, ti sorprende, ti far rimanere a bocca aperta sempre, ogni volta che ci ritorni. Non serve essere “filo”,”anti”, “pro” o “contro” e tantomeno servono le lenti per filtrare il raggio degli ideali, degli schieramenti o della passione per esplorare il mondo. Il mondo spesso è come il sole: a volte ti abbaglia.

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Giuseppe Crimaldi

Torno in Israele a 30 anni dalla prima volta. Era l’estate del 1982: allora c’era la guerra del Libano, uno dei comandanti delle truppe di Tsahal si chiamava Ariel Sharon, il nome della missione era “Operazione Pace in Galilea” (מבצע שלום הגליל, Mivtsa Shalom HaGalil), i palestinesi avevano l’Olp di Yasser Arafat, nella terra dei cedri comandavano i cristiani e in Siria c’era un dittatore sanguinario di nome Hafez al Assad. Di lì a poco sarebbe esplosa la prima intifada.

Oggi tutto è cambiato, e tornare in Israele – come poi ho fatto almeno altre sei volte dal 1982 a oggi – è esperienza salutare. Cinque giorni, uno più intenso dell’altro. Una full-immersion girando intorno a quell’ombelico del mondo. Dalla disperazione di Gaza e della sua povera gente condannata a restare all’inferno alle start up che attraggono persino i colossi della Silicon Valley californiana; dai caffè arabi illuminati a neon alle discoteche di Tel Aviv; dalle sirene della martoriata Sderot alla magia eterna di Gerusalemme, fino ad Haifa – la più “napoletana” delle città israeliane – e alle caserme dei posti di frontiera, agli stadi pieni di tifosi israeliani e alle lacrime dello Yed VAshem. Israele è un pugno nello stomaco che ti riporta in vita. Sempre.

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 Vivere da tirassegno

Sderot, non è una città ma un bersaglio fisso. Siamo a un paio di chilometri in linea d’aria dalla periferia nord di Gaza, esattamente dove Hamas ha posizionato il grosso delle sue batterie di missili Kassam. Wikipedia spiega che dalla metà di giugno 2007 al febbraio 2008, 771 razzi e 857 bombe da mortaio sono state sparati contro Sderot e il Negev occidentale, con una media di tre o quattro ogni giorno. Ma Wikipedia non fa mai testo, guai a fidarsi di certo Web. Il sito andrebbe aggiornato ma nessuno lo fa, per cui ci penseremo noi: fino a oggi ne sono stati scagliati più di 4500; dal giorno del ritiro israeliano dalla Striscia il numero di lanci è aumentato di sei volte. Ma la gente non vuole abbandonare la propria terra. Anzi il numero degli abitanti è cresciuto e continua a crescere.

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Sderot

Sderot è una piccola cittadina di 20mila anime. Le case sono fatte di cartongesso e dall’estate scorsa è in corso una rivoluzione edilizia imposta dalla necessità di edificare i rifugi antimissile in cemento armato. Qui l’incubo è una sirena. L’allarme è un urlo stridulo che può arrivare a ogni ora del giorno e della notte. Il confine tra la vita e la morte è segnato in 15 secondi: tanto serve alla gente per cercare di imboccare il primo rifugio anti-Kassam. Pochissimo turismo. C’è un centro commerciale con una piazza e tutt’intorno palazzi di quattro piani al massimo. La gente si sforza di sorridere, ma questa è la città israeliana con il più alto numero di persone seguite da psicologi per disturbi legati alla paura.

Sderot. Ecco il rifugio amtimissile dedicato ai bambini

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I bambini di Sderot non vivono da bambini

Questa è la città in cui i bambini – le prime vittime della paura e della guerra, quanto lo sono quelli palestinesi – vengono portati in un centro donato con i fondi dell’American Jewish Fund, un capolavoro di tristezza e di gioia: duecento metri quadri in un capannone nella zona industriale di Sderot con pareti affrescate da colori gioiosi che si alternano alle figure di Topolino, Minnie, Cip e Ciop; qui quando l’allarme si fa alto entrano i bambini di Sderot, e nel cuore di questa palestra piena di canestri, bamboline e cartoni animati c’è la “stanzetta del compleanno”. Maestre, mamme e psicologi al primo allarme sgranano un sorriso e dicono ai piccoli che è arrivato il momento di far festa: è il compleanno di Mickey Mouse, e dunque si va nel rifugio antimissile. Trenta metri quadrati arredati gioiosamente con sedioline colorate, un televisore che proietterà film e bocchettoni per l’ossigeno con autonomia di 24 ore. Tutto costruite per garantire la sicurezza dei bimbi, finché passi la bufera, lì fuori.

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Vivere con l’incubo dei missili

Non è esattamente ciò che fa Hamas per i bambini palestinesi e per la sua gente. A Gaza di guerra si muore tre volte in più che in Israele, è vero. Ma nella Striscia i bambini vengono utilizzati come scudi umani, le batterie di Kassam vengono montate su asili e scuole, per non parlare degli ospedali. E questo nessuno lo dice. A Gaza la vita di un bambino vale zero. Come quella degli 8000 palestinesi che campavano facendo i pendolari – ogni giorno su e giù, avanti e indietro lungo il valico di Erez – per lavorare la terra in Israele. Da luglio, e cioè da quando Hamas ha iniziato il lancio dei razzi su Sderot, Ashqelon, su molte altre città e perfino su Tel Aviv – il governo di Gerusalemme ha chiuso quel passaggio di frontiera, che per i palestinesi era anche un varco verso la sopravvivenza. Ogni lavoratore palestinese deve mantenere, in media, una famiglia di dieci persone e in Israele, lavorando, guadagnava dai 500 ai 700 dollari al mese; oggi è costretto a vivere con meno di un dollaro al giorno: fatevi voi due conti.

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Hamas sta affamando la sua gente. Introita miliardi di dollari ogni mese grazie ai finanziamenti del Qatar e di altre nazioni del Golfo Arabo e non destina un penny al welfare. No. Hamas utilizza quei soldi per armarsi. E peccato che in quel fiume di denaro finiscano anche i generosi finanziamenti elargiti dall’Unione Europea. Cioè da noi. Il valico di Erez però resta ancora aperto – su decisione di Israele – per i passaggi umanitari; per consentire l’accesso ai palestinesi che hanno bisogno delle cure mediche, dei ricoveri e delle operazioni urgenti in Israele.

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Altro paradosso: Israele continua a fornire al suo nemico – la Palestina di Hamas – l’energia elettrica. Quello che i sacri fuochi dell’informazione “corretta” continuano a nascondere è una verità scomoda da raccontare. Israele continua a fornire elettricità a Gaza, anche se sa benissimo che essa è usata anche per far funzionare le fabbriche di missili che sono poi sparati contro la sua popolazione civile. Quel che è successo è che l’Egitto ha interrotto il contrabbando di gasolio attraverso i tunnel, che veniva per lo più dal Qatar a prezzo politico e ora l’Anp richiede all’amministrazione di Hamas il prezzo commerciale per il gasolio da far passare attraverso il confine israeliano e Hamas non ha nessuna intenzione di pagare. Il debito ammonta a centinaia di milioni di dollari.

(1. Continua)

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7 pensieri su “L’ombelico del mondo
Un cielo di piombo

  1. sundance76

    Però diciamo anche che le due maggiori falde acquifere sotterranee della regione sono situate nei territori palestinesi, ma ad usufruirne è soprattutto Israele in quanto potenza occupante, al punto da razionare l’acqua per i palestinesi e a proporre a questi ultimi di bere acqua di mare desalinizzata (sebbene il mare sia a ovest, sulle rive israeliane) col “permesso” (ma a spese dei palestinesi) di far passare i condotti dal mare Mediterraneo alla West Bank. Una situazione che fa il paio con la deviazione del Giordano, ultimata da Israele nel 1964, che ha progressivamente reso dieci volte più arida la regione (tra West Bank e Giordania), affamando la già difficile agricoltura dei Territori palestinesi.
    Ecco, tutte queste cose gravissime sono da sempre ultra-ignorate e occultate.

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  2. Giuseppe Crimaldi

    Il fiume Giordano ha la sua fonte nelle alture del Golan, precisamente nel monte Hermon che dal 1967 si trova in territorio israeliano. Il percorso di questo fiume lo porta a fungere da confine naturale tra la Giordania e Israele, scorrendo inoltre nei territori occupati della Cisgiordania. Attualmente circa il 98% dell’acqua del Giordano è stata deviata attraverso delle dighe costruite dalla Siria, dalla Giordania e ovviamente da Israele. Lo Stato di Israele controlla le sorgenti del fiume situate sul monte Hermon oltre a uno dei principali affluenti, il fiume Yarmuk. L’acqua deviata da Israele viene raccolta nel lago di Tiberiade, per poi essere immessa nel sistema idrico nazionale israeliano. Grazie ad una diga costruita appena due km a sud rispetto al lago di Tiberiade e a sistemi di canalizzazione, solo una minima parte dell’acqua del fiume Giordano viene sfruttata dalla popolazione palestinese presente in Cisgiordania.
    La falda acquifera sotterranea si estende, invece, dalle montagne dell’alta Galilea fino al deserto di Bersheba. Durante la guerra dei sei giorni l’esercito israeliano ha distrutto circa 140 pozzi utilizzati dalla popolazione palestinese per attingere all’acqua presente nella falda. Negli anni successivi la costruzione di nuovi pozzi ha sempre richiesto un’autorizzazione preventiva da parte di Israele, il che ha spinto la popolazione palestinese a scavare i così detti “pozzi illegali”, repentinamente individuati e distrutti dalle forze di sicurezza israeliane.
    Per cercare di incrementare l’acqua a disposizione dei palestinesi nel 1995 l’OLP aveva raggiunto un accordo con Israele in base al quale la Palestina aveva diritto a prelevare ogni anno 118 milioni di metri cubi d’acqua dalle falde acquifere, a cui si dovevano aggiungere 28,6 milioni trasferiti da Israele verso la Striscia di Gaza e verso la Cisgiordania. Questo accordo non solo non disponeva nulla rispetto alle altre risorse idriche presenti in Palestina, in primis il fiume Giordano, ma non trovò nemmeno attuazione a causa dei continui conflitti tra Israele e palestinesi degenerati a seguito della seconda intifada e della conquista della Striscia di Gaza da parte di Hamas.

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  3. Giuseppe Crimaldi

    E mi permetto di aggiungre una cosa al gentile commento: una parte, almeno una parte dei miliardi di petroldollari elargiti dai Paesi del Golfo Arabo – Qatar in testa – sarebbe giusto che venissero investiti da chi oggi governa i palestinesi per realizzare infrastrutture, linee idriche e acquedotti, ma anche trivellazioni tese a sfruttare l’acqua dolce. Peccato non sia così: Hamas li utilizza per armarsi.

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  4. Dario

    E diciamo pure che hamas ha tutto l’interesse a far apparire la popolazione palestinese come povera, assetata ed affamata. Cosí almeno l’occidente manda fondi per la popolazione, che poi magicamente si trasformano in missili e razzi. Gran bell’articolo: complimenti!

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  5. Daniele Coppin

    La questione dell’acqua è un pò più complessa e andrebbe considerata da vari punti vista – scientifico, tecnico, amministrativo. Prima della guerra dei sei giorni, nel corso della quale la Cisgiordania fu sottratta alla Giordania, non esistevano acquedotti nei Territori palestinesi. Gli Israeliani hanno realizzato una rete acquedottistica di cui si avvantaggiano innanzitutto loro (d’altra parte sono loro ad avere realizzato quelle opere) ma che comunque porta ai Palestinesi un quantitativo pro capite d’acqua di molte volte superiore a quanto ne avevano prima. E che la questione sia avvertita da entrambe le parti è testimoniata dalla collaborazione (altra realtà non diffusa perchè scomoda) tra ANP ed esercito israeliano per scoprire i pozzi abusivi.

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  6. Daniele Coppin

    Quanto poi al Giordano, la riduzione di portata è stata provocata dalle dighe siriane, come già sottolineato da Giuseppe Crimaldi, e prova ne è che anche il livello del Lago di Tiberiade, in territorio israeliano, si sta abbassando.

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  7. giuseppe crimaldi

    Che altro aggiungere? Ha ragione Daniele Coppin quando ricorda che c’è la mano della Siria nella riduzione di portata delle acque verso i territori palestinesi. Siamo alle solite: la storia la scrivono i vincitori. Tutti, tranne Israele, beninteso.

    Replica

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