di Adolfo Mollichelli
Chiedetemi chi era Johan Cruijff. Potrei darvi numerose risposte. Il profeta del gol come lo definì Sandro Ciotti. Il Pelé bianco come lo definì Gianni Brera. E mi viene da dire che Pelé è stato il Cruijff nero. Oppure il drone che non c’era ancora. Perché “filmava” il gioco come se lo vedesse dall’alto. O anche l’espressione più sublime di un fuoriclasse unico al servizio del calcio totale. O il Nureyev con scarpette bullonate. Perché si muoveva con grazia e raffinatezza estreme, ogni sua giocata era un passo di danza
Mi chiedete che cosa ha vinto, quanti gol ha segnato, quanti Palloni d’oro ha vinto? Non vi risponderò vi rimando agli almanacchi per le fredde cifre.
Posso dirvi che con lui l’Ajax e l’Olanda furono grandi e fecero scuola. Che contribuì a posare la prima pietra del grande Barcellona che sarà, prima in campo e poi in panchina.
Sulle ramblas arrivò nel ’73. Dai lancieri ai blaugrana che dovettero respingere le avances del Real Madrid. Decise lui: “Mai avrei potuto giocare in una squadra associata a Francisco Franco“.
E fu subito Liga, dopo quattordici anni d’attesa. Barcellona scelta d’amore, il primo figlio chiamato Jordi santo patrono della capitale della Catalogna.
Ricordo il suo sguardo fiero nelle sconfitte, anche in quelle più crudeli. Come quella nella finale mondiale disputata tra Olanda e Germania, i tulipani contro i crucchi, il bello del calcio e la corazza dei panzer. Cruijff lasciò il campo con lo sguardo fiero, come tutti i suoi compagni. Se questo è il calcio c’è qualcosa che non va, questo dicevano i suoi occhi appena velati di tristezza incredula.
Fuoriclasse inimitabile e uomo di cultura. Un filosofo prestato al mondo del pallone.
Un insegnante prodigo di consigli per i suoi allievi. I geni della Masia – il centro scuola di allenamento del Barcellona – gli devono molto. Ha insegnato come si vince e, soprattutto, a saper perdere.
Non fa eccezione la terribile sconfitta alla quale andò incontro il suo Barca nella finale dell’allora coppa dei Campioni. Avversario il Milan allenato da Capello.
Era il 18 maggio del ’92. Fini 4-0 per i rossoneri, una derrota. Fu in quell’occasione che conobbi Cruijff. E mi stupì la sua risposta ad un collega spagnolo che gli aveva chiesto conto della bruciante sconfitta: “Non so che dire, eppure noi avevamo Romario e loro Desailly“. Peccato di presunzione? “Il fatto è che gli italiani non possono vincere, ma contro di loro puoi perdere“.
Fuoriclasse in campo, tecnico di vaglia in panchina ma soprattutto educatore, vero e proprio insegnante della materia che ha più amato: il calcio. Contrario alle semplificazioni che tanto amano cronisti e tifosi d’oggi: Maradona e Messi chi il più grande. E Johan: “Paragone nauseante, chi ha visto giocare Diego se lo è goduto e tutti quelli che oggi guardano Messi dovrebbero restare incantati da Leo”.
Semplice. E verità assoluta. Paragonare i grandi di epoche diverse è esercizio frivolo e fasullo. Avevi ragione caro Johan. E certo che sei stato anche dissacrante come ogni spirito libero sa esserlo.
Avrei voluto abbracciarti quando bacchettasti usi e costumi che non condividevi: “In Spagna tutti e ventidue i giocatori si fanno il segno della croce quando entrano in campo, se avesse effetto tutte le partite finirebbero con un pareggio”.
Per definire la mediocrità dilagante nel calcio e non solo si affidò ad un aforisma secco: “Nel regno dei ciechi lo strabico è il re, ma resta strabico”. Ti sia lieve la terra inimitabile Johan.